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domenica 16 giugno 2013

Philosophia medica. Alle origini.

È noto ai più che oggi, se l'individuo soffre di una depressione riconducibile prevalentemente ad un disturbo umorale di pura natura psichica, lo si spedisce dallo psicologo che, a colpi di dialogo ed introspezione, lo aiuterà ad uscire dal tunnel. Se però la natura del male affonda le radici nella situazione fisiologica del paziente, vuoi per un calo di ormoni, vuoi per i postumi di una malattia, vuoi per l'eccessiva somatizzazione del disagio psichico, ecco allora che entra in gioco la saputa figura dello psichiatra, che oltre a chiacchierare può anche prescrivere farmaci che aiutino il cervello a fare ciò che di norma sarebbe in grado di fare da solo, oppure terapie a base di ansiolitici che cancellino le fobie dallo spettro neuronale dell'interessato.
Già, già. Oggi psicologo e psichiatra sono separati tra loro non solo e non tanto dalla laurea in medicina, ma anche dal fatto che l'approccio psicologico è decisamente agganciato al pensiero filosofico in materia di conoscenza dell'anima, laddove lo psichiatra deve soprattutto "parlare" alla componente materiale e alla sorgente concreta delle nostre alterazioni umorali.
Parrà strano, ma se la cura dell'anima pare ai nostri giorni inevitabilmente condivisa tra due figure simili ma non del tutto, facendo un salto indietro nella nostra adorata antichità classica scopriamo che il medico e il filosofo si sono quasi sempre tenuti su orizzonti diversi, eppure medicina e filosofia si sono avvicinate molto più di quanto si potrebbe immaginare in astratto.
Non è del resto tipica l'immagine della filosofia come cura dell'anima? Ebbene, questo assunto apre scenari molto variegati. Che noi di animaperta siamo qui pronti ad ammannirvi, rimandandovi ovviamente alla lettura del capitale saggio di cui ci onoriamo di essere i padrini.

Procediamo: l'accezione molto popolare di filosofia come cura dell'anima punta il baricentro della questione soprattutto sull'etica. Alla filosofia, di fatto, si chiede di fornire ricette del buon vivere, spesso imparentate con il buon senso più sapido e tradizionale, in modo da potersi creare dei piccoli sistemi di vita perfettamente autonomi, confliggenti il meno possibile con quelli degli altri, in grado poi di dotarci di uno "scudo" sufficientemente solido contro gli accidenti della vita, dai più banali ai più imprevisti e dolorosi. Il che, certo, è uno degli obiettivi della filosofia pressoché dalla sua nascita, giacché dimensione speculativa e dimensione etica si intersecano fatalmente nella riflessione dei filosofi, germogliando entrambe dall'intento di dare una lettura umana, cioè razionale, della realtà. È però un fatto che, in termini assoluti, la dimensione etica spesso risulta dipendente e in certo modo secondaria rispetto a quella metafisica. 
Cioè a dire: posto che, come l'ottimo Kant notò già ai tempi suoi, le etiche classiche sono tutte o quasi eudaimonistiche, prescriventi cioè le regole per raggiungere una vita felice, la differenza si gioca tutta tra l'approdo finale di questa felicità, che può essere nel solo mondo fisico o anche, e più preferibilmente, in quello metafisico delle essenze spirituali, immutabili ed eterne da cui dipendono tutte le cose che popolano la nostra terrena dimensione. Per Platone, evidentemente, non sono le ricchezze materiali il fine di una vita felice, perché l'anima umana, spirituale e affine alle Idee soprasensibili, ambisce a tornare là da dove era venuta cadendo nel corpo, nel luogo del Bene assoluto, dell'Uno metafisico che coincide con l'unica Verità; di ben altro parere i suoi spesso contemporanei filosofi sofisti, per i quali, eliminata la possibilità di conoscere ed esprimere alcunché si trovi al di fuori dell'orizzonte sensibile, il fine della vita si relativizza nella capacità di persuadere se stessi in primis e poi gli altri delle verità più convenienti per i singoli.
In tutto ciò, pertanto, la filosofia a volte è sì cura dell'anima, alle volte mero ammaestramento a cercare la dimensione esistenziale che meglio si attaglia al singolo. Il benessere dell'anima è però spesso una conseguenza indiretta del raggiungimento della verità, sì che l'etica non ha consistenza autonoma, ma discende in certo modo dalla metafisica e dalla dialettica, cioè a dire è anch'essa una forma di conoscenza (socraticamente: conosce il bene quindi lo prativo, quindi sono felice). Il filosofo dunque non si occupa del benessere dell'anima in termini di consigli spiccioli per il quieto vivere, ma la stimola al ricongiungimento con l'Assoluto in grado di guarire qualsiasi affezione. In sintesi: prima viene la conoscenza, poi, se serve, il ben vivere quaggiù, che però è una mera tappa intermedia, essendo la meta finale dell'anima il mondo soprasensibile. Di una cosa però paiono tutti sicuri: la cura dell'anima non può essere la medesima del corpo, perché anima e corpo sono due entità irriducibili, materiale uno, spirituale l'altra. Erano del resto gli anni in cui la medicina usciva dalla sua dimensione magico-sciamanica e si avviava a diventare una disciplina orientata secondo criteri di analisi razionale dei fenomeni patologici; che poi eziologia e terapia delle malattie, rispetto a noi oggi, fossero spesso sommamente ridicole, non toglie il fatto che il pensiero greco ha voluto una buona volta sganciare la figura del medico da quella dello stregone, per indagare le malattie nella loro assoluta corporeità. Arrivati però ai disturbi della personalità, Ippocrate e la sua squadra si arrestavano ad un'interpretazione molto teorica, e poco dimostrabile, nondimeno valida formalmente rispetto a quello che sappiamo noi oggi. In poche parole, se l'individuo cadeva in uno stato di depressione rabbiosa, ovvero la melancolia, ciò si doveva al fatto che nel corpo era presente un eccesso di bile nera, che dal fegato si era probabilmente riversata in quantità poco nobile nel sangue, infiammandosi  e provocando sintomi di fatto identici a quelli delle depressioni odierne, ovvero tristezza inestirpabile, misantropia, carenza di appetito, insonnia, fastidio per la luce e i suoni, ansia immotivata, pianti, corse e urla improvvise. L'ottimo medico di scuola ippocratica, tuttavia, poteva solo inferire una relazione tra disagio atrabiliare e disagio psichico che nei fatti non era dimostrabile: com'era possibile che la bile, ovvero fluido corporeo materiale, arrivasse ad influenzare l'anima, fatta di tutt'altra sostanza?
Arrestatisi a questo punto, i medici potevano al limite cedere ai filosofi l'indagine su stati di disagio psichico di pura natura spirituale, come ad esempio il mal d'amore: in casi simili, il medico dichiarava la propria impotenza a somministrare terapie, poiché l'eziologia del disturbo cadeva al di fuori del suo campo di indagine. Toccava dunque al filosofo curare l'anima. Ma secondo quali presupposti?
È chiaro che in un ambito filosofico fortemente agganciato alla metafisica, da Platone in giù, la cura dell'anima consisteva sopratutto nel far ricordare al "malato" il vero destino della medesima, la sua sorgente spirituale, il ruolo di pura incrostazione esercitato dalle "cose" del mondo da cui era necessario un rapido distacco per evitare di compromettere la capacità psichica di ricongiungimento con le altezze iperuraniche.     
È chiaro tuttavia che un simile tipo di "terapia" necessitasse un certo tipo di pubblico. Proporre la pace definitiva dei tormenti della psiche in una dimensione che si poteva solo immaginare per via speculativa, esigeva un popolo che alla dimensione speculativa, intesa come libera indagine razionale sui meccanismi del reale non vincolata da presupposti religiosi, era avvezzo già da un po' e infatti i greci del V-IV secolo a.C. si dimostrarono discepoli tutto sommato giudiziosi. Si parla evidentemente di un popolo che da decenni si metteva in aperta sfida coi limiti del reale, viaggiava, fondava colonie, affondava flotte persiane, metteva in scena tragedie nelle quali discutere del rapporto tra necessità universale e responsabilità individuale, imparava quanto fosse difficile vivere nella democrazia facendo in modo che i diritti della maggioranza non diventassero capestri per la minoranza, insomma gente adusa alle sfide che poteva accettare la scommessa metafisica e credere per via razionale a qualcosa che si collocava fuori del dominio dei sensi, ma con l'aggiunta che parte di questa dimensione extrasensoriale era tuttavia intimamente connessa col corpo, abitando in esso per l'appunto l'anima, che del corpo era la parte più nobile pur non omogenea. Venne tuttavia presto l'epoca in cui la filosofia dovette ingegnarsi per curare l'anima esattamente come un corpo, anzi in quanto corpo materiale essa stessa. E fu subito Ellenismo.

                                                                                                (1- continua)

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