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Noi crediamo nella Cultura vera, ovvero la capacità dell'uomo di raccontarsi a se stesso. Nessuno escluso.

martedì 13 agosto 2013

Canti Kallistaici


Riportiamo qui ciò che le dedicammo secoli fa, quando Kallistèa decise di inviarci i suoi custodi per svegliarci dal nostro torpore. Il lettore accorto noterà pertanto che in questo modo si va attuando un incrocio di piani temporali tra la leggenda di Kallistèa e la sua storia concreta, sì che il prima si mischia innegabilmente col dopo. La vicenda diventa quindi più mossa e appassionante, mica vogliamo annoiarvi....

Partiamo con un sonettino.


OCCHI


Sangue di cielo dalle Sacre Sfere
si cola come neve sfrangia fresca
goccia da grotta in muto stagno e innesca
l'onda, che sboccia a pelo sopra nere
profondità, animate da intermisse
baluginanti lucciole polari,
specchio che s'apre dentro a ignoti mari
dell'Io e di freschi palpiti, non scisse
azzurrità, granita, onice, china,
buccia, mela-corallo, albicocca
bianca, poi fragola, zucchero in bocca
di quarzi adamantati, ovale crina.
Sogno perduto, sidro unto a petrolio,
gelida lava del mancato solio.

sabato 20 luglio 2013

La leggenda di Kallistèa [4]


Il furore del Disordine si fece a quel punto incontrollabile. Le comete che passavano lungo le linee pulviscolari degli spazi crollati furono afferrate e mutilate delle loro code, sì che le chiome caddero disorientate dentro i buchi neri. Le scie fredde e gassose delle ex-comete furono raggrumate entro un reticolo cristallino di vastità incommensurabile e si ottennero due emisferi glaciali concavi, in grado, se uniti, di sviluppare al loro interno una temperatura vicina, se non corrispondente, allo zero assoluto. Queste calotte emisferiche furono spedite ovunque nel Cosmo ad inghiottire e fagocitare nebulose, giacché a questo punto il Disordine non aveva più pazienza e intendeva procedere attraverso una distruzione immediata e sistematica dei grandi agglomerati di materia, cosa che avrebbe, per collassamento simpatetico, provocato il disfacimento dei più piccoli. Ecco dunque che l'orrenda fauce bi-emisferica si chiudeva attorno agli ammassi gassosi e materici, i quali, dopo pochissimi secondi, si ritrovavano tramutati in fibra di ghiaccio, che scivolava via al soffio del vento cosmico non appena le due calotte di riseparavano. L'azione di questi ammassi cristallini era rapidissima, nonostante le loro dimensioni, poiché l'energia negativa che correva lungo i reticoli rendeva loro agile lo scivolare lungo le corsie di elio fuso che connettevano le zone del Cosmo ove il Disordine regnava con più assolutezza.
Intere porzioni di Cosmo erano ormai rarefatte dall'azione delle calotte onnivore, ma l'energia di Kallistèa non tardò a manifestarsi anche contro questa nuova e inaudita minaccia. Il quinto potere della Gemma ipercosmica era una scheggia di energia rosso acceso, dal cui cuore pulsante esalavano staffili di luce intensa che sospendevano nel vuoto i resti delle nebulose fagocitate dalle calotte e ne arrestavano la disgregazione. Ben presto gli staffili coprirono distanze chilometriche di parecchi anni-luce, e di fatto tutta la zona del Cosmo oggetto dell'assalto delle calotte glaciali fu presidiata da questi possenti raggi kallistaici che rallentavano l'azione del nefando macchinario, facendolo inciampare dentro abissi di luce intatta.
Il Disordine sentì di aver stanato, stavolta forse definitivamente, l'essenza stessa di Kallistèa: decine e decine di calotte biemisferiche furono eruttate dalle profondità del Cosmo e andarono verso la scheggia rossa per inghiottirla. Il potere di Kallistèa era però agile e luminoso, e si sottraeva agli assalti, cosa che purtroppo comportava il sacrificio delle galassie che incappavano nella chiusura delle calotte. Una coppia di esse, tuttavia, riuscì a rinserrarsi attorno alla scheggia rossa, la quale a questo punto assunse una forma eptacuspidale e con le punte infiammate trapassò il ghiaccio reticolare e sciolse le gigantesche fauci. Altre calotte giunsero allora per imprigionare il potere kallistaico, chiudendosi addirittura le una sopra le altre, così da bloccare i raggi di energia rossa e soprattutto scongiurare il loro potere liquefacente. La luce della scheggia parve infiochirsi nella morsa di un gelo senza soluzione, poiché la moltiplicazione dello zero assoluto ovunque intorno a lei rendeva vano il dispiegarsi del calore. Il Disordine non aveva però considerato che gli staffili luminosi precedentemente emessi dalla scheggia avevano intercettato una scia di asteroidi, vivificandoli di una forza che pulsava al loro interno come una fornace. Queste nuove comete infuocate piombarono dagli spazi esterni e si abbatterono sulle sfere concentriche formate dalla calotte glaciali, perforandole con assoluta facilità, sì che la scheggia rossa poté nuovamente dispiegare la propria ipercosmica potenza, e così fece: gli asteroidi le si fusero attorno secondo uno schema radiale-ortogonale, dopodiché la nuova struttura prese a roteare nel vuoto e ad accendersi; dal centro di essa sgorgò quindi la più imponente fiamma che il Cosmo ricordasse dai suoi albori, quando capricciose eliche di azoto si incontravano con spirali metanogene, esplodendo tra i comparti delle stelle appena nate. La fiamma guizzò sicura in direzione della valle delle comete mutilate, e lì piombò, riscaldando oltre ogni limite il pozzo ove il Disordine aveva generato le voraci calotte. La Disarmonia si liquefece e le sue gocce oscure ripresero un colore armonico, trasformando quell'oscuro lembo di Cosmo in una gola ansimante e iridescente di infiorescenze biemisferiche, sorta di fiori ad ombrello simili a molluschi gassosi, ciò in cui erano state trasformate le calotte dal potere distruttivo/ricostruttivo del quinto potere di Kallistèa, la Fiamma di Roccia.

La furia del Disordine fu però irrorata dalla presenza della Fiamma di Roccia, poiché era la prima manifestazione kallistaica che emanasse energia in senso stretto. Kallistèa, quindi, non era solo Forma, come lasciavano capire le precedenti manifestazioni, ma era in grado di raggrumarsi anche in manifestazioni energetiche per competere col Disordine.
Inghiottire quell'energia, non però per annullarla, quanto piuttosto per nutrirsene e aumentare a dismisura le proprie possibilità: in questo nuovo atto il Disordine concentrò il proprio potere; nemmeno l'apparente invincibilità di Kallistèa avrebbe potuto sottrarsi alle fauci dell'intero Cosmo, giacché di esso pure lei era il frutto.
La curva più remota del buio spaziale si inarcò e d'un colpo le distanze siderali cessarono di sussistere: decine e decine di globuli tachionici collassarono nei buchi neri vicini alla pianura di luce multicolore dove il tri-modulo si era bagnato per dare origine a Kallistèa e da quell'orrido senza fondo sgorgò un essere triforme, col corpo di grafite, ali di azoto liquido e tre voragini simili a gole di serpente, senza occhi, senza labbra, animate unicamente da un viscido rigurgito di materia gassosa che colava regolarmente addosso ai corpi celesti, che al contatto con essa si liquefacevano o esplodevano in disorientati asteroidi.
Nel suo cieco procedere, la creatura senza nome incrociò i pianeti dove avevano preso sede i poteri di Kallistèa: a stento ciascuno di essi poté salvare il corpo astrale da lui protetto. I lampi della Pantera sbiadivano sotto la pioggia asfissiante dei rifiuti submolecolari del mostro, né il volo dell'Aquila pareva sufficiente ad arrestare la minaccia delle mandibole dentate; il Vortice evaporava in più punti lungo l'atmosfera del proprio pianeta, e le foglie degli Alberi Sonori mostravano evidenti segni di appassimento.
La Fiamma di Roccia prese allora a circondare i pianeti suddetti con un alone di calore che riusciva a tenere alla larga il mostro, ma ciò produsse nient'altro che una situazione di stallo, poiché il potere rigenerante di Kallistèa ridava vita a quei pianeti, ma non li garantiva contro la presenza di una creatura di indecifrabile avidità. Avidità che si manifestò allorquando i colli del mostro si aprirono come fossero dotati di branchie, e da queste fessure incommensurabili prima fuoriuscirono vapori pestilenziali che spensero tutte le comete vicine, poi si attuò un risucchio che lentamente ma inesorabilmente trascinava pianeti, poteri di Kallistèa protettori e Fiamma di Roccia verso la creatura. I raggi di fiamma kallistaica vennero rapidamente bevuti da quelle branchie viscose, né la musica degli Alberi Sonori, estinta dal vuoto del risucchio, era in grado di distorcere il ruggito sibilante del mostro, provocandone l'implosione.
Il Disordine sentì di aver vinto la sfida. Non si accorse, tuttavia, di una nuova luminescenza, arancione stavolta, che tintinnava al fondo dei sistemi planetari vicini alla coda del mostro. Bastò però una lieve vibrazione perché la consapevolezza si manifestasse: la schiena dell'essere immondo fu striata da venature arancio che gli provocarono qualcosa di comparabile al dolore, posto che una creatura senza nome come quella potesse provarne. Di certo le fauci si spalancarono come per gridare, guizzando cieche nel vuoto senza risposta. Il Disordine invece vide benissimo: le striature arancio si coagularono in una gigantesca tigre fatta di vento cosmico, materiale e aerea allo stesso tempo. Turbini splendenti costituivano le striature, e si alternavano secondo tinte più chiare o meno chiare, diffondendo un pulviscolo energetico in grado sopprimere i fumi che fuoriuscivano dalla creatura del Disordine. Zanne ed artigli, invece, erano pura energia e lasciavano lame di luce che il vento moltiplicava per non lasciare scampo agli appetiti dell'avversario. Un ruggito della tigre rigettò nelle tre gole del mostro tutti gli effluvi mefitici, provocandogli l'emersione di bolle purulente di titanio lungo tutto il ventre, o quello che poteva essere ventre.
Le tre gole, pazzamente imbizzarrite, si allungarono allora sulla tigre, e grazie alle ali d'azoto liquido il movimento del leviatano cosmico risultò rapidissimo: raggi di plasma furono riversati contro la nuova manifestazione di Kallistèa e all'unisono le fauci dell'essere si chiusero sull'avversario, che però si smaterializzò prontamente, per ricomporsi poco lontano. La repentinità del movimento del mostro aveva purtroppo disassato i pianeti protetti da Kallistèa, che vagavano ora raminghi lungo orbite perdute. Solo una provvidenziale rete di calore prodotta dalla Fiamma di Roccia impedì che essi finissero in pasto ai buchi neri che attorno al teatro dello scontro attendevano famelici di poter cibarsi di nuclei di nichel fuso.
Intanto la tigre passò al contrattacco, e coi suoi artigli squarciò due delle tre gole del mostro. Queste tuttavia non caddero nel vuoto, ma si riformarono raddoppiate, cosicché la creatura del Disordine risultava ora in possesso di cinque fauci. Altri raggi al plasma assalirono la tigre, ma essa fu ancora più veloce, e con un morso recise la coda del mostro, facendone fuoriuscire bava di nebulose mal digerite, ma sopratutto provocando anche lì la formazione di altre tre gole. Ora il mostro era un rettile cieco bifronte, i cui doppi ordini di fauci lottavano tra di loro per la primazia nell'assalto alla tigre. I pianeti attorno videro pertanto una creatura che mangiava sé e ciò che le stava accanto, rivomitandosi e rigenerandosi dopo ogni deglutizione.
Ci fu però il momento in cui il Disordine ordinò alle ormai innumerevoli gole di puntare tutte sull'obiettivo: infinite paia di branchie si aprirono su colli schiumanti di elio bruciato e un risucchio senza paragoni attirò a sé la tigre, la quale si disintegrò nel suo stesso vento, per venire aspirata definitivamente. Breve fu tuttavia il trionfo del mostro: ingerita ormai del tutto, la tigre si riformò, e dall'interno fece strage con artigli e zanne delle interiora dell'essere, mentre i turbini delle striature dilagarono con la potenza distruttiva di migliaia di tornado cosmici: alla fine, un'esplosione di supernova arancio sancì la dissoluzione completa del mostro multifauci.
La Tigre di Vento, sesto potere di Kallistèa, volò dunque tra le stelle a perenne baluardo contro l'orrore del Disordine.

mercoledì 10 luglio 2013

La leggenda di Kallistèa [3]


Il Disordine due volte sconfitto non si rassegnò alla potenza ipercosmica di Kallistèa, e alzò il livello della sfida: fu preso di mira un nuovo pianeta, coperto da grandi oceani intervallati da ampie isole, sulle quali abitavano esseri pacifici e devoti al culto dell'Armonia. Non ebbe quindi dubbi, il Disordine, su dove colpire: dalle profondità astrali dove esso signoreggiava, atomi di carbonio e scintille fotoniche furono impastati per creare lampi accecanti dotati di una corporeità intangibile eppure devastante. Ecco dunque che sulla superficie del pacifico pianeta degli Adoratori dell'Armonia piovvero terremoti di luce che bruciavano gli oceani e soprattutto devastavano senza appello le città e i villaggi degli abitanti delle isole. Incendi improvvisi sorgevano ovunque, le linee della cenere che essi lasciavano si allargavano a raggiera sul suolo per chilometri, continuando sotto la superficie marina come colpi d'artiglio. Case crollate e strade divelte dalla loro sede erano lo spettacolo offerto agli abitanti, perlomeno a quei pochi che erano riusciti a sopravvivere e che dovevano provvedere al mesto recupero dei tizzoni sbriciolati che una volta erano i loro familiari, compagni e amici, i quali avevano avuto la sventura di trovarsi lungo la traiettoria delle raggiere elettriche.
Mentre la tempesta continuava senza sosta, e persino il cielo appariva graffiato e sanguinante per la potenza dei colpi, comparve nell'atmosfera il terzo potere di Kallistèa, una scheggia nera screziata da linee irregolari e angolose di colore azzurro/blu, in perenne movimento sull'oscura pellicola. Al suo passaggio i lampi deviarono la loro traiettoria, disperdendosi orizzontalmente nell'atmosfera. Accortosi della nuova, nemica presenza, il Disordine fece aumentare la frequenza della pioggia distruttrice, che bombardò con violenza il pianeta, forando gli oceani e facendo loro ingurgitare le isole disintegrate dagli incendi: la scheggia nera prese allora a brillare e le sue venature blu si espansero ovunque nell'aria, chiamando a raccolta le molecole vaporose non ancora estinte dal calore immondo dei lampi del Disordine. Di fronte a quest'alterazione sospetta, il Disordine cessò gli attacchi sparsi e concentrò la propria furia contro Kallistèa. Tutti i lampi distruttivi vennero convogliati in direzione della scheggia, la quale però non era già più tale: sulle striature blu si era concentrato un oceano di cielo rappreso e nuvole rigide i quali, agitati dall'energia kallistaica, brillavano possenti di un blu scuro che scorreva lungo tutta la superficie dello scudo e raffreddava all'istante la massa dei lampi, riducendoli a filamenti di farina giallastra; non solo: lo scudo roteava su se stesso, avvolgendo nelle sue spirali tutta la negatività del Disordine, soffocandola. E non accadeva ciò solo nel punto in cui si trovava la scheggia: le sue ramificazioni blu coprivano ormai tutto il pianeta, e ad intervalli regolari avevano raccolto su di sé cielo e nuvole a sufficienza per creare altrettanti scudi vorticosi su cui si infrangevano vani i lampi del Disordine, ritornando in parte nel vuoto da cui venivano, parte piovendo sulla superficie del pianeta come luce purificata da Kallistèa e quindi in grado di vivificare le zone distrutte dagli incendi, oltreché di suturare per sempre i fori scavati negli oceani dalla tempesta di lampi. Il Disordine non poteva prevalere e rinunciò all'attacco: il pianeta restò quindi libero di rinascere e i suoi abitatori eressero ovunque templi al Vortice dei Cieli Nebulari, grandioso e vastissimo potere di Kallistèa.
Mentre cubi di galassia argentea venivano fagocitati da oceani di idrogeno infuocato, nutrendo in tal modo il Disordine, una nuova strategia venne messa a punto, stavolta non più basata sulla devastazione della luce, ma su quella del suono. Fu così che le profondità di un nuovo pianeta vennero ad un tratto scosse da una vibrazione a bassissima frequenza, così solida e ruggente da divellere alla radice le basi delle montagne: una volta che queste rovinarono sulle pianure, dalle loro cime spaccate fuoriuscì una miscellanea di suoni contorti come scheletri d'acciaio, vere e proprie onde d'urto di puro caos che sommovevano l'aspetto di tutto ciò che incontravano: globi di corallo sotterranea furono ritrovati dentro le foreste, i fiumi presero a scorrere in direzione del cielo, colonie di meduse nuotarono nell'aria, mentre popolazioni intere si ritrovarono scaraventate sott'acqua. Cosa ancor più terribile, il manto stesso del pianeta si stava rovesciando su se stesso, cosicché promontori di lava si ergevano la dove la crosta si arricciava e guizzanti filamenti di lapilli, non più trattenuti dalle rocce, trapuntarono il cielo, bruciandone la fauna e tutti gli esseri che per qualche effetto della detonazione sonica si erano ritrovati nelle regioni aeree.
Il quarto potere di Kallistèa giunse quando il pianeta era prossimo a disintegrarsi. Era una scheggia nera, stavolta maculata da guizzi verde scuro che palpitavano sulla superficie. Contro di essa la detonazione sonica si deformava, sorpassandola senza spostarla. Il Disordine non volle perder tempo: tutte le cime spezzate delle montagne eruttarono contemporaneamente una valanga di onde sonore ancora più basse della prima, che come vele sull'acqua fendettero l'aria, aprendola in più punti, e puntarono sulla scheggia. Questa, però, non attese l'attacco e si conficcò sotto una porzione di suolo non ancora scoperchiata: qui, in una grotta naturale appena appena immune, ma ancora per poco, dalle lame sonore, giacque al suolo e innervò di energia le stalagmiti attorno a sé. Esse cominciarono a crescere e a prendere sembianze di tronchi d'albero, la cui natura petrosa, man mano che si estendevano in altezza, diventava sempre più vegetale, mentre i rami e le foglie tremolavano di una luce verde e vaporosa.
Alberi giganteschi, insomma, sbucarono dal suolo in ogni punto del pianeta, afferrando con le foglie lucenti le molecole di suono inviate dal Disordine e sottoponendole ad una fotosintesi armonica, sì che la cacofonia intercettata si trasformava in musica. I pezzi di pianeta divelti dal suono malvagio vennero ora investiti da un'energia costruttiva che li ricollocava al loro posto originario oppure in una nuova configurazione con altri elementi, configurazione che però soggiaceva alle sacre leggi della Forma cosmica; gli uragani distonici cozzarono contro le fronde chilometriche e svanirono, lasciando piccole tracce nell'incresparsi delle onde dei mari.
Il Disordine decise allora di attaccare il potere di Kallistèa là dove si era acquattato: le staffilate di suono vollero penetrare appuntite nel cuore stesso della grotta sotterranea che la scheggia aveva eletto a sua sede, ma ormai le radici stalagmitiche di tutto il pianeta erano impregnate del potere ipercosmico, e nessun suono che non fosse armonico poteva scendere sottoterra. Al contrario, le fronde degli alberi kallistaici presero ad ondeggiare al vento degli strati più alti dell'atmosfera e la loro luce creò una sorta di rete tra cima e cima, fino a coprire tutto il pianeta. Fu un attimo: la rete si strinse attorno alle onde del Disordine e le stritolò, spezzandole con un suono simile al vetro in inutili frammenti, la cui caduta creò giusto qualche livido sul terreno, ma nulla più. Il pianeta, libero dalla cacofonia, respirò aria di suono rinnovata e musica ipercosmica, mentre le comete sfioravano la ionosfera, salutate dalle cime frondose radicate nella Grotta degli Alberi Sonori, quarto potere di Kallistèa.


venerdì 21 giugno 2013

Philosophia medica [2]

L'avvento della cosiddetta Età ellenistica rappresenta uno degli snodi fondamentali della storia umana, molto spesso peraltro sottovalutati dai cosiddetti modernisti che non concepiscono altro spazio di accadimento delle cose fuori del perimetro che essi decidono di assegnar loro. Con le nostre medesime orecchie, nel lontano 2005, al Festivàl della filosofia di Carpi, udimmo un capoccione francese di evidenti ascendenze italiche, tal Michel Maffesolì, discettare dottamente sotto un sole cocente e davanti ad una folla plaudente del fatto che, a suo dire, mai prima d'ora, cioè prima del quindicennio 1990-2005, il mondo aveva conosciuto una così evidente compenetrazione di stili di vita occidentali e orientali, per dire cioè che, grazie alla globalizzazione, l'antica distanza, non solo geografica ma proprio culturale, tra i due emisferi verticali del mondo è andata riducendosi nel senso di una progressiva innervatura di modi di vita all'orientale nel tradizionale tessuto culturale dell'occidente. 
Al che, vuoi per il caldo, vuoi perché erano ancora tempi in cui si attendevano a settembre le chiamate dalle scuole, ho rischiato l'embolo, dal momento che anche il più scalcinato classicista sa che il primo vero caso di globalizzazione, intesa proprio come incontro tra oriente e occidente, è avvenuto un pochino prima rispetto alle dotte tesi maffesoliane, ovvero appunto nel periodo denominato Ellenismo (convenzionalmente delimitato tra il 323 a.C. - morte di Alessandro Magno - e il 31 a.C. - caduta dell'Egitto sotto Roma). Lì, grazie alla diffusione della cultura greca in zone non greche come la Siria, la Persia, l'Egitto, e poi su fino all'odierno Afghanistan, senza contare l'attuale Turchia, che però con gli ellenici aveva sempre avuto un po' a che fare, oriente e occidente si incontrarono, poiché il mondo greco assorbì suggestioni da tutte le civiltà orientali che erano state sottomesse da Alessandro e che avevano continuato a grecizzarsi anche dopo la sua morte, poiché è noto che allo sfaldamento del grande impero macedone seguì la formazione dei regni detti appunto ellenistici (Macedonia, Siria, Egitto, Pergamo), che nella loro versione orientale erano monarchie con classe dirigente greca e sudditi asiatici/egiziani. Spiace che l'ottimo Maffesolì non abbia MAI in tutto il suo intervento accennato nemmeno di striscio a questo fenomeno, perché lì davvero si giocò la prima grande partita di integrazione fra due zone del mondo che ancora oggi non si guardano proprio di buon occhio. Eppure la storia è andata così: divinità greche, siriache, egiziane furono venerate sotto nomi diversi ma in riferimento ad una medesima figura (Artemide = Iside = Astarte), stili di vita, credenze filosofiche e misteriche si mischiarono in un caleidoscopio affascinante e imprevedibile, così come non meno importante fu la cultura materiale delle suppellettili, dei vestiti, del modo di costruire le case, ma ancora l'influenza reciproca che le scuole artistiche al di qua e al di là del mar Egeo si scambiarono vicendevolmente. E insomma, il primo atto della globalizzazione fu quello. Piccolo,  risibile rispetto alle proporzioni di oggi, ma la radice di tutto è già a quell'epoca.
Epperò accadevano cose: i liberi cittadini greci erano diventati ormai sudditi dei monarchi macedoni; gli altri, cioè gli abitatori grecofoni dei regni orientali, si misuravano con gente che alla sudditanza era avvezza da 3-4000 anni, quindi nulla di che; tuttavia, il contatto con visioni del mondo così altre rispetto a quella ellenica, la relativizzazione dei valori, l'incertezza politica legata, sopratutto fino al 280 a.C., alle continue lotte tra i monarchi ellenistici per strappar territori ai rivali, sì che un abitante della Fenicia si addormentava suddito del re d'Egitto e si svegliava il giorno dopo suddito di quello di Siria, o anche viceversa, tutto questo clima di mobilità permanente psicologica e materiale provocò in molte coscienze una forte crisi, un accentuato senso di insicurezza, legato soprattutto, nel caso dei greci memori delle antiche libertà della polis, al non poter essere più arbitri del proprio destino, costretti invece a infiniti compromessi con linee di forza politiche, sociali, culturali che imponevano pressoché quotidianamente un ripensamento del proprio Sé. È chiaro allora che le antiche "promesse" delle filosofie greche classiche, il loro sguardo su un riscatto definitivo dell'anima da collocarsi entro la dimensione metafisica, non potevano saziare gente desiderosa di risposte immediate, concrete, legate ad un'etica sommamente pratica, quasi spicciola.   
Ciò spiega l'immenso successo che in quest'età riscossero due filosofie di impianto unicamente materialista, ovvero epicureismo e stoicismo. In disaccordo su tutto, entrambe riposano tuttavia su un impianto che nega l'esistenza di alcuna realtà che sia al di fuori del mondo sensibile: per gli epicurei tutto l'universo è costituito di atomi indistruttibili ed eterni che si aggregano e si disgregano in continuazione muovendosi nel vuoto; per gli stoici l'universo è attraversato da un soffio di energia calda, il pneuma, che si trasforma in tutte le cose e dà loro vita. Ciao metafisica, insomma. Conseguenza di ciò, ambo le filosofie si dividono agilmente in tre tronconi, la cui importanza è però inversa rispetto a quanto ci si sarebbe aspettati in epoche anteriori: c'è la fisica, ovvero la dottrina che spiega la natura e il funzionamento dell'universo materiale, la logica, ovvero lo studio delle condizioni attraverso cui l'uomo conosce il mondo che lo circonda, ma c'è soprattutto l'etica, ovvero l'insieme delle norme che devono garantire una vita felice QUAGGIÙ, anche perché di fatto lassù, inteso come al di là dell'esperienza sensibile, non vi è semplicemente nulla.
È a quest'altezza che cominciano a imporsi motivi metaforici riguardanti la possibilità che la filosofia sia una cura per l'anima; non solo e non tanto perché, parallelamente, la medicina "scientifica" sta compiendo notevoli progressi nella comprensione del funzionamento del corpo umano (si scopre la funzione dei nervi, tanto per dire, anche se diagnosi e terapie generali delle malattie restano sempre piuttosto debolucce), ma soprattutto perché, in un orizzonte materialistico come quello proposto dalle filosofie anzidette, l'anima stessa non è più spirituale, ma corporea anch'essa. L'anima viene cioè trattata come corpo, ma questo "come" non indica una comparazione tra due soggetti al loro fondo diversi, ma è un'apposizione, cioè anima IN QUANTO corpo, fatta di atomi per gli epicurei, di pneuma clado e leggerissimo secondo gli stoici. In tal modo, all'individuo afflitto da crisi esistenziali multiple si può offrire una soluzione un po' meno evanescente rispetto a prima, poiché la possibilità di intervenire sui mali dell'anima tramite terapie a questo punto affini a quelle mediche rende, per così dire, più "tangibile" e quindi "credibile" la prospettiva di guarire dalle ansie e dalle passioni che turbano al coscienza. Si tratta in sostanza non più di chiedere la disponibilità a scommettere su una dimensione "altra" rispetto a quella in cui si vive, ma di indicare un percorso di guarigione identico a quello di un male fisico, poiché l'anima stessa è fisicità.
Si capisce allora il senso del vertice etico delle due dottrine, molto simile nel significato tradotto, ma più specifico nel senso etimologico originale.
Per gli epicurei il fine dell'uomo è la felicità come assenza di turbamento, e l'assenza di turbamento in greco si dice ataraxìa. Si badi però che qui il turbamento è reale, non metaforico: nell'esortare alla soddisfazione dei desideri naturali e necessari (fame, sete, ecc.), Epicuro ragiona sulla base della convinzione che i desideri "cattivi", ovvero quelli non naturali e non necessari (denaro, fama, potere) hanno il potere di turbare l'anima, ma proprio nel senso materialissimo di agitare in eccesso gli atomi che la compongono, ciò da cui discendono le nostre afflizioni. La quiete del saggio, all'opposto, consiste appunto nell'avere l'anima materialmente serena, con gli atomi in movimento regolare e non confuso.
Discorso analogo noi si va a fare per l'apàtheia stoica: la traduzione italiana apatìa non rende evidentemente giustizia al concetto originale greco, poiché per noi il vocabolo indica qualcosa di vicino all'accidia, un'incapacità di agire per scarsa volontà, laddove per gli stoici questo concetto è altamente positivo. Perché ciò? Perché a-patheia significa evidentemente "mancanza di pathos", però pathos non indica, originariamente, una sofferenza, ma più radicalmente una condizione passiva, ovvero il fatto che un corpo subisca una sorta di pressione, o impronta, da parte di un altro corpo, venendone modificato (si pensi ad un sigillo sulla ceralacca). Ebbene, l'anima stoicamente intesa è un flusso di pneuma che scorre nel nostro corpo e che è presente ovunque, anche negli occhi, e ovviamente nel cuore e nel cervello. Gli eventi esterni, o meglio le raffigurazioni che di essi giungono al cervello e al cuore tramite i sensi, "si imprimono" sulla facoltà percettiva dell'anima e diventano "rappresentazioni" che noi introiettiamo (come accadeva alle vecchie pellicole fotografiche - ah, il digitale che barbarie...); si badi però anche qui: ciò che noi intrioettiamo non è un'idea astratta della cosa percepita, ma è precisamente il suo calco sulla fisicità della nostra anima percettiva. Questo è il primo stadio del pathos, che come si vede è assolutamente neutro, nel senso che in sé non comporta né gioia né dolore, perlomeno nulla in cui siamo parte responsabile. Il problema sorge allorché la nostra anima, dopo aver "ricevuto" l'impressione, la giudica, e se il suo grado di tonicità non è adeguato, il giudizio erra e allora si cade preda del pathos in senso più comune, ovvero la malattia dell'anima (ira, invidia, cupidigia, ecc.).
Esempio tipico: il mio amico X, per farmi uno scherzo e forse un dispetto, prende in mano un oggetto a me molto caro e lo butta a terra, rompendolo. Questa scena si imprime nella mia anima, deformandola leggermente; che io sia saggio o no, l'evento in sé rappresenta certo una negatività dovuta ad un atteggiamento non razionale di X, ergo io, o meglio la mia anima, viene percorsa da un breve "tremito" di spiacevolezza che è pathos nel suo aspetto più innocuo, paragonabile ai brividi sulla pelle che chiunque di noi prova automaticamente e senza volerlo se viene spruzzato con acqua fredda a tradimento. 
Passo successivo: la mia anima "denomina" la negatività appena ricevuta, ovvero la "riveste" con un contenuto proposizionale del tipo: "X, col suo gesto, mi ha offeso". Tutto si gioca ora sul grado di tonicità dell'anima che concepisce tale pensiero: se è l'anima di un saggio, la tonicità sarà sufficiente per respingere l'impressione negativa, così che la superficie dell'anima stessa ritorni "liscia", come se nulla vi si fosse impresso; il saggio giungerà a questa ri-liscizzazione dicendo a se stesso: "Nulla che riguardi i beni materiali può davvero offendere la mia virtù". Se però parliamo di una persona un po' meno saggia, l'immagine di X che rompe l'oggetto a me caro premerà ancor un po' di più sulla superficie dell'anima, la quale aggiungerà una nuova proposizione alla precedente: "Adesso è giusto che io mi vendichi". Se si è giunti a questo stadio, significa che la "deformazione" dell'anima è vicina al punto critico, a causa delle spinte esterne che si ripercuotono sull'immediata percettività, ovvero un momento pre-razionale e da lì alla nostra facoltà di giudizio. Chi non è saggissimo, ma comunque sulla buona strada, riuscirà in un intervento in extremis controbattendo al contenuto biproposizionale con un contenuto analogo ma opposto, del tipo: "Non può esserci vendetta, perché non c'è stata vera offesa". Se il contrattacco va in porto, l'anima si ridistende e la passione è scongiurata. Se però nemmeno questo ultimissimo stadio ha effetto, il giudizio espresso nella doppia proposizione "Mi hanno offeso- devo vendicarmi" riceverà l'assenso della nostra anima razionale che di conseguenza resterà deformata e sconvolta dall'irrazionalità e darà luogo alla reazione della vendetta, veicolo della passione dell'ira: io picchierò X. Ecco qui il verificarsi del pathos vero e proprio, ovvero una totale sottomissione della ragione al suo opposto.
Anche in questo caso, si nota, i termini della questione sono estremamente fisici: l'anima necessita di essere tenuta in esercizio come (= al pari di, in quanto) la corda di un buono strumento musicale, che non deve essere né troppo tesa né troppo rilassata. A tale condizione contribuiscono evidentemente gli studi filosofici, poiché i buoni discorsi - lògoi contenuti nelle opere dei saggi, una volta percepiti dall'anima (che per gli stoici è a sua volta lògos e insieme pneuma spirituale, ovvero pneuma materiale leggerissimo, ma pur sempre materia), vi si stampano realmente e quindi ne modellano la liscia e uniforme tonicità. Anche in questo caso, quindi, la filosofia cura l'anima esattamente come se si trattasse di applicare un unguento su di una ferita, solo che la ferita in questione è provocata dell'indebito stamparsi di un'impressione negativa che una mancanza di tonicità ha mal giudicato.
Stoici ed epicurei curano insomma l'anima sottoponendola a terapie analoghe a quelle dei corpi. Si può intuire allora che, ad in certo punto, medicina e filosofia finiranno per incontrarsi davvero. E fu subito Scuola Medica Pneumatica.

                                                                                                  (2- continua)    

martedì 18 giugno 2013

La leggenda di Kallistèa [2].

Kallistèa roteò e generò attorno a sé un sorriso di energia, l'energia della Forma. Il vuoto attorno a lei parve danzare, tutte le dimensioni si fusero in una sola, poi si ri-separarono, poi la luce si sbriciolò in tante scaglie che si dispersero negli spazi sterminati del Cosmo. Kallistèa però restò lì dov'era, e le adunche reti del Disordine non poterono nemmeno avvicinarlesi: attonite da tanta potenza e bellezza, irritate dall'Ordine che emanava dalle onde cosmiche della gemma, si ritirarono irose negli anfratti più remoti, ma non per questo cessarono di agire: cataclismi e rovesciamenti di plasma pulviscolare si scatenarono più di prima così da ridistruggere l'Ordine appena ricostituito. Il Cosmo soffriva, ma sentiva che la presenza di Kallistèa rappresentava un baluardo troppo a lungo cercato, ma ora finalmente presente. 
Anche il Disordine comprese la minaccia, è si adoperò per cancellare Kallistèa.
La gemma era però inscalfittibile, protetta da una sorta di potere rigenerante che faceva evaporare ogni assalto in una miriade di piangenti gluoni oscuri. 
Il Disordine decise allora di promanare ovunque, portando il cosmo all'implosione su sé medesimo: senza più uno scenario dove far poggiare i suoi pilastri, la Bellezza assoluta si sarebbe dissolta con esso. 
Si sarebbe cominciato dai pianeti. Su uno di essi, particolarmente verdeggiante, il Disordine prese a far piovere una strana escrescenza bluastra, che a contatto col terreno vi scavava voragini immani, piovendovi poi dentro fino a sgretolare le radici stesse delle cose. Dal baratro senza fine sorse quindi una serie di insopportabili esseri vegeto-animali, in grado di spostarsi sulle proprie radici e divorare con le proprie liane impregnate di acido qualsiasi cosa si trovasse sul loro cammino. 
In poche ora il pianeta fu quasi totalmente spogliato di ogni suo senso, poiché le vegeto-bestie non si saziavano mai, anzi si riproducevano grazie a bubboni fungosi che sbocciavano sulle liane e si staccavano per attecchire ovunque.
Fu a questo punto che una delle schegge di Kallistèa cadde sul suolo del pianeta. Era una scheggia di colore scuro, di un nero oltre le cui profondità pareva di scorgere le origini stesse della Forma. Appena toccò il suolo, la scheggia fece appassire tutte le vegeto-bestie intorno a lei. La altre, gocciando bava petroleosa dalle liane dotate di occhi, restarono in attesa, pronte tuttavia a scagliarsi su quel frammento di Bellezza assoluta per fagocitarlo rapidamente.
Non ebbero il tempo progettare ciò: il frammento, nero come l'onice, salì nell'atmosfera e poi si precipitò verso terra ad una velocità impressionante,  e mentre scendeva in picchiata andava assumendo una forma definita, come quella di una pantera. Giunta al suolo, la scheggia era di fato una gigantesca pantera, le cui zampe tuttavia lampeggiavano di guizzi bianchissimi, tali peraltro da impedire che l'animale toccasse il suolo, ma sostenendolo come a mezz'aria. Altro però era da stupirsi: dove la pantera passava, i guizzi lampeggianti delle zampe facevano rinascere la vita sul suolo divorato dalle vegeto-bestie: una flora rinnovata, verdissima e brillante, che con la sua armonia rinnegava e quasi derideva l'esistenza di quegli altri esseri figli del Disordine. Nuovi arbusti sbocciarono sotto le liane acide, immuni ai loro miasmi, chiome altissime portarono via con sé i mostri e li fecero precipitare al suolo, sì che essi si ridussero in poltiglia; i fili d'erba di avvolsero attorno alle vegeto-bestie, succhiando loro via ogni vigore.
Non bastò: l'esercito subnormale puntò compatto verso la Pantera, che guizzò ad una velocità indescrivibile e con gli artigli del lampo fece strage delle vegeto-bestie. Più volte le liane occhiute si avvinghiarono attorno al corpo e alle zampe della Pantera, ma ogni volta l'energia di Kallistèa sprizzava accecante e rendeva vana la presa. Con un ruggito, l'animale ipercosmico assalì le ultime immonde creature, che franarono su se stesse e ridivennero concime per le piante vere. Il pianeta fu così pacificato e riportato a nuova vita dal primo potere di Kallistèa, la Pantera del Lampo. 
Su un altro pianeta, frattanto, il Disordine aveva preso a martoriare i viventi con atroci tempeste acide e con maremoti di onde che si alzavano ad altezze estreme, per poi ricadere come magli spietati sulla crosta del pianeta, lasciando crepe e voragini su cui poi la marea acida scavava ferite non più medicabili. La vita si ritraeva smarrita di fronte a simile violenza, finché le nuvole si scostarono e una seconda scheggia di Kallistèa si aprì un varco in mezzo al Disordine: anch'essa era scura, ma sulla sua superficie brillavano strisce dorate. La sua discesa sul suolo del pianeta  provocò un improvviso arresto del flusso ondoso verso l'alto e anche le gocce acide di tempesta restarono sospese nel cielo. La luce dorata che si alternava ai balenii oscuri piovve sulle crepe della crosta e le richiuse, permettendo lo sgorgare di fontane di vapore che ripulivano l'aria. 
Il Disordine avvertì questa nuova minaccia al proprio potere e richiamò tutte le acque del pianeta nel luogo in cui si trovava la scheggia kallistaica, vicino ad una rupe a picco sull'oceano più vasto di quel globo. Una colonna di incommensurabile vastità ed estensione verso l'alto si ergeva contro la minuscola scheggia, avida di nuvole e ossigeno, sì che l'aria di quel punto del pianeta divenne di fatto irrespirabile. Le gocce di acido piovevano contro il potere di onice striato d'oro, ma evaporavano prima ancora di toccarlo. 
Un attimo, e la cima della torre d'acqua si rovesciò sulla scheggia, ma nemmeno la spostò. Purtroppo, però, il pianeta venne sommerso da un'ondata che cancellò quasi tutte le civiltà su esso fiorite. Il Disordine era tuttavia assetato di quella scheggia e la colonna d'acqua prese stavolta le sembianze di un gigantesco maglio, pronto a disintegrare Kallistèa.
La scheggia però si mosse più rapida contro il maglio d'acqua, e nel suo movimento prese le sembianze di un'aquila dalle ali d'oro, che con gli artigli agganciò la massa d'acqua e se la portò dietro, facendola contorcere su se stessa per poi lasciarla cadere sul fondo dell'abisso. 
Di fronte a quest'ingiuria, il Disordine rianimò l'oceano acido del pianeta perché, come una gigantesca mano, afferrasse e stritolasse l'Aquila. Così non fu: la mano d'acqua si spalancò possente, tale da coprire tutta l'estensione di un emisfero del pianeta, ma l'Aquila puntò contro di essa, spalancò le ali, e come una lama di energia d'oro la penetrò, facendola evaporare definitivamente, mentre le nubi fecero piovere un pioggia stavolta buona perché purificata dal potere di Kallistèa, l'Aquila della Onde, sotto il cui presidio la vita del pianeta poté riprendere.

                                                                                     (2- continua)

domenica 16 giugno 2013

Philosophia medica. Alle origini.

È noto ai più che oggi, se l'individuo soffre di una depressione riconducibile prevalentemente ad un disturbo umorale di pura natura psichica, lo si spedisce dallo psicologo che, a colpi di dialogo ed introspezione, lo aiuterà ad uscire dal tunnel. Se però la natura del male affonda le radici nella situazione fisiologica del paziente, vuoi per un calo di ormoni, vuoi per i postumi di una malattia, vuoi per l'eccessiva somatizzazione del disagio psichico, ecco allora che entra in gioco la saputa figura dello psichiatra, che oltre a chiacchierare può anche prescrivere farmaci che aiutino il cervello a fare ciò che di norma sarebbe in grado di fare da solo, oppure terapie a base di ansiolitici che cancellino le fobie dallo spettro neuronale dell'interessato.
Già, già. Oggi psicologo e psichiatra sono separati tra loro non solo e non tanto dalla laurea in medicina, ma anche dal fatto che l'approccio psicologico è decisamente agganciato al pensiero filosofico in materia di conoscenza dell'anima, laddove lo psichiatra deve soprattutto "parlare" alla componente materiale e alla sorgente concreta delle nostre alterazioni umorali.
Parrà strano, ma se la cura dell'anima pare ai nostri giorni inevitabilmente condivisa tra due figure simili ma non del tutto, facendo un salto indietro nella nostra adorata antichità classica scopriamo che il medico e il filosofo si sono quasi sempre tenuti su orizzonti diversi, eppure medicina e filosofia si sono avvicinate molto più di quanto si potrebbe immaginare in astratto.
Non è del resto tipica l'immagine della filosofia come cura dell'anima? Ebbene, questo assunto apre scenari molto variegati. Che noi di animaperta siamo qui pronti ad ammannirvi, rimandandovi ovviamente alla lettura del capitale saggio di cui ci onoriamo di essere i padrini.

Procediamo: l'accezione molto popolare di filosofia come cura dell'anima punta il baricentro della questione soprattutto sull'etica. Alla filosofia, di fatto, si chiede di fornire ricette del buon vivere, spesso imparentate con il buon senso più sapido e tradizionale, in modo da potersi creare dei piccoli sistemi di vita perfettamente autonomi, confliggenti il meno possibile con quelli degli altri, in grado poi di dotarci di uno "scudo" sufficientemente solido contro gli accidenti della vita, dai più banali ai più imprevisti e dolorosi. Il che, certo, è uno degli obiettivi della filosofia pressoché dalla sua nascita, giacché dimensione speculativa e dimensione etica si intersecano fatalmente nella riflessione dei filosofi, germogliando entrambe dall'intento di dare una lettura umana, cioè razionale, della realtà. È però un fatto che, in termini assoluti, la dimensione etica spesso risulta dipendente e in certo modo secondaria rispetto a quella metafisica. 
Cioè a dire: posto che, come l'ottimo Kant notò già ai tempi suoi, le etiche classiche sono tutte o quasi eudaimonistiche, prescriventi cioè le regole per raggiungere una vita felice, la differenza si gioca tutta tra l'approdo finale di questa felicità, che può essere nel solo mondo fisico o anche, e più preferibilmente, in quello metafisico delle essenze spirituali, immutabili ed eterne da cui dipendono tutte le cose che popolano la nostra terrena dimensione. Per Platone, evidentemente, non sono le ricchezze materiali il fine di una vita felice, perché l'anima umana, spirituale e affine alle Idee soprasensibili, ambisce a tornare là da dove era venuta cadendo nel corpo, nel luogo del Bene assoluto, dell'Uno metafisico che coincide con l'unica Verità; di ben altro parere i suoi spesso contemporanei filosofi sofisti, per i quali, eliminata la possibilità di conoscere ed esprimere alcunché si trovi al di fuori dell'orizzonte sensibile, il fine della vita si relativizza nella capacità di persuadere se stessi in primis e poi gli altri delle verità più convenienti per i singoli.
In tutto ciò, pertanto, la filosofia a volte è sì cura dell'anima, alle volte mero ammaestramento a cercare la dimensione esistenziale che meglio si attaglia al singolo. Il benessere dell'anima è però spesso una conseguenza indiretta del raggiungimento della verità, sì che l'etica non ha consistenza autonoma, ma discende in certo modo dalla metafisica e dalla dialettica, cioè a dire è anch'essa una forma di conoscenza (socraticamente: conosce il bene quindi lo prativo, quindi sono felice). Il filosofo dunque non si occupa del benessere dell'anima in termini di consigli spiccioli per il quieto vivere, ma la stimola al ricongiungimento con l'Assoluto in grado di guarire qualsiasi affezione. In sintesi: prima viene la conoscenza, poi, se serve, il ben vivere quaggiù, che però è una mera tappa intermedia, essendo la meta finale dell'anima il mondo soprasensibile. Di una cosa però paiono tutti sicuri: la cura dell'anima non può essere la medesima del corpo, perché anima e corpo sono due entità irriducibili, materiale uno, spirituale l'altra. Erano del resto gli anni in cui la medicina usciva dalla sua dimensione magico-sciamanica e si avviava a diventare una disciplina orientata secondo criteri di analisi razionale dei fenomeni patologici; che poi eziologia e terapia delle malattie, rispetto a noi oggi, fossero spesso sommamente ridicole, non toglie il fatto che il pensiero greco ha voluto una buona volta sganciare la figura del medico da quella dello stregone, per indagare le malattie nella loro assoluta corporeità. Arrivati però ai disturbi della personalità, Ippocrate e la sua squadra si arrestavano ad un'interpretazione molto teorica, e poco dimostrabile, nondimeno valida formalmente rispetto a quello che sappiamo noi oggi. In poche parole, se l'individuo cadeva in uno stato di depressione rabbiosa, ovvero la melancolia, ciò si doveva al fatto che nel corpo era presente un eccesso di bile nera, che dal fegato si era probabilmente riversata in quantità poco nobile nel sangue, infiammandosi  e provocando sintomi di fatto identici a quelli delle depressioni odierne, ovvero tristezza inestirpabile, misantropia, carenza di appetito, insonnia, fastidio per la luce e i suoni, ansia immotivata, pianti, corse e urla improvvise. L'ottimo medico di scuola ippocratica, tuttavia, poteva solo inferire una relazione tra disagio atrabiliare e disagio psichico che nei fatti non era dimostrabile: com'era possibile che la bile, ovvero fluido corporeo materiale, arrivasse ad influenzare l'anima, fatta di tutt'altra sostanza?
Arrestatisi a questo punto, i medici potevano al limite cedere ai filosofi l'indagine su stati di disagio psichico di pura natura spirituale, come ad esempio il mal d'amore: in casi simili, il medico dichiarava la propria impotenza a somministrare terapie, poiché l'eziologia del disturbo cadeva al di fuori del suo campo di indagine. Toccava dunque al filosofo curare l'anima. Ma secondo quali presupposti?
È chiaro che in un ambito filosofico fortemente agganciato alla metafisica, da Platone in giù, la cura dell'anima consisteva sopratutto nel far ricordare al "malato" il vero destino della medesima, la sua sorgente spirituale, il ruolo di pura incrostazione esercitato dalle "cose" del mondo da cui era necessario un rapido distacco per evitare di compromettere la capacità psichica di ricongiungimento con le altezze iperuraniche.     
È chiaro tuttavia che un simile tipo di "terapia" necessitasse un certo tipo di pubblico. Proporre la pace definitiva dei tormenti della psiche in una dimensione che si poteva solo immaginare per via speculativa, esigeva un popolo che alla dimensione speculativa, intesa come libera indagine razionale sui meccanismi del reale non vincolata da presupposti religiosi, era avvezzo già da un po' e infatti i greci del V-IV secolo a.C. si dimostrarono discepoli tutto sommato giudiziosi. Si parla evidentemente di un popolo che da decenni si metteva in aperta sfida coi limiti del reale, viaggiava, fondava colonie, affondava flotte persiane, metteva in scena tragedie nelle quali discutere del rapporto tra necessità universale e responsabilità individuale, imparava quanto fosse difficile vivere nella democrazia facendo in modo che i diritti della maggioranza non diventassero capestri per la minoranza, insomma gente adusa alle sfide che poteva accettare la scommessa metafisica e credere per via razionale a qualcosa che si collocava fuori del dominio dei sensi, ma con l'aggiunta che parte di questa dimensione extrasensoriale era tuttavia intimamente connessa col corpo, abitando in esso per l'appunto l'anima, che del corpo era la parte più nobile pur non omogenea. Venne tuttavia presto l'epoca in cui la filosofia dovette ingegnarsi per curare l'anima esattamente come un corpo, anzi in quanto corpo materiale essa stessa. E fu subito Ellenismo.

                                                                                                (1- continua)

sabato 15 giugno 2013

La leggenda di Kallistèa [1].

La Bellezza fu il primo vagito del Cosmo.
Il Cosmo si accorse di esserci, e di essere bello.
Sentì le proprie smisurate eppure geometriche proporzioni, solleticò se stesso con le scie delle comete che trapassavano da galassia a galassia, giocò con le fontane di luce che eruttavano dal cuore dei pianeti ancora in formazione. Dentro ogni forma si celava un'altra forma, in parte identica in parte diversa, ma affine alle forme che la contenevano. I pilastri gassosi reggevano volte di spirali e lungo le linee invisibili della gravità ogni atomo occupava la sua sede. Tutto brillava ameno dentro un buio perennemente increspato dai colori più vari e cangianti.
Il Cosmo, autopercepitosi come tale, volle tuttavia passare alla seconda fase dell'esistenza, ovvero la propria definizione, intesa davvero come ricerca dei propri confini, così da de-finire sé rispetto al resto. Fu in quel momento che il Cosmo scoprì di non avere confini, o perlomeno di non riuscire a percepire qualcos'altro che non fosse Cosmo; non c'era proprio nulla rispetto a cui definirsi, nel senso che il Cosmo si definiva per la sua stessa esistenza. 
Fu un brivido, che squassò lievemente alcune delle stelle più giovani. Non c'era un vero e proprio centro nel Cosmo, poiché esso era ovunque. Il limite non c'era, perché ogni regione più remota, di quelle in cui ancora minime scintille di carbonio principiavano ad accendere i propri tossicchianti bagliori, sapeva di essere prossima ad un'altra zona di Cosmo che prendeva forma in quel momento, senza essere a sua volta delimitata da altro che non fosse ancora Cosmo in formazione. 
Fallita quindi l'impresa di de-finirsi, il Cosmo procedette all'altra, forse inevitabile, operazione: scoprire le proprie origini. Giacché, se non sembravano esserci limiti nello spazio, almeno poteva darsi un tempo a partire dal quale il Cosmo aveva cominciato ad esistere. E ciò comportava di necessità lo scoprire cosa c'era stato prima.  
Silenzio. Il Cosmo, somma Bellezza del Tutto, non sapeva di sé altro che non fosse il fatto di essere Cosmo. Cosa ci fosse prima, non gli era dato sapere. La Bellezza era lì, già data. Meglio: si interrogò, lanciò onde di pulviscolo in quelle che gli parevano essere le zone più antiche (ma antiche rispetto a cosa?), in attesa che esse onde tornassero cariche di qualcosa, forse la traccia di un modello pregresso, la memoria di una cesura, la grinza tra due epoche, non più percepita perché assorbita dalla geometria della Bellezza. Ma nulla. Il Cosmo si conosceva nel presente, ma non aveva passato né limiti tangibili. E del resto, cosa avrebbe potuto esserci prima? La Bellezza del Cosmo era il risultato di qualcosa che era spuntato dal nulla o il nucleo della Forma Assoluta era da sempre e per sempre e andava semplicemente svolgendosi come una matassa di linee energetiche multicolori? Ma prima del Tutto, poteva davvero esserci il Nulla? E perché dal Nulla si sarebbe passati al Tutto? Se Nulla è, il Nulla è già Tutto? No, perché la Bellezza del Nulla non avrebbe senso.
Il Cosmo non capiva. Credette allora che tracce del passato potessero bensì essere celate nel presente, ma che esse andassero in certo modo stanate: e l'unico modo era rompere per un attimo le giunture della Bellezza per capire da cosa essa fosse composta, e se quel qualcosa che stava sotto la superficie potesse essere il primo passo di un sentiero che riconducesse all'indietro, verso l'Origine.
Iniziò così, per puro paradosso dell'Esistenza, la concorrenza all'interno del Cosmo tra Ordine e Disordine.
Si provò spostando alcune nebulose per cercare la trama che le reggesse; quindi alcuni pianeti furono posti su orbite diverse, in modo che il loro nuovo moto potesse svelare un'idea nuova. Le stelle precipitarono all'insù, ma non trovarono dove agganciarsi. I pezzi del Cosmo, ad un certo punto, iniziarono autonomamente a svolgersi e riunirsi senza un principio che governasse questi nuovi movimenti. Tuttavia, poiché il dis-ordine è tale solo in rapporto ad un ordine perduto, dissonanza e proporzione continuarono a misurarsi, giacché il disordine da solo sarebbe stato il nuovo Ordine, ma la non-forma esigeva la concorrenza della Forma e così il Cosmo continuava a perpetuarsi in un gorgo di molecole litigiose e prive di collocazione. I crolli seguivano alle ricostruzioni, le risalite culminavano in baratri di vuoto lucente al fondo del quale c'era solo Cosmo ferito. Né fu possibile invertire il processo per tornare alla disposizione cosmica anteriore all'inizio del processo disordinante: la confusione delle Forme, se pure non portava verso nulla in avanti, non consentiva altrettanto di riguardare indietro per riacquistare l'assetto iniziale. Il Cosmo si dimenticò di se stesso.
Fu a quel punto che la pressione del Disordine si fece insopportabile, poiché essa si estendeva ormai dai più remoti recessi del Cosmo fino alla superficie dei singoli pianeti, i cui ecosistemi si sgretolavano dentro i nuclei e dissolvevano le placche, riducendo i pianeti stessi a pulviscolo.
In quel momento, in un luogo imprecisato del Cosmo, la sete di Ordine tracimò nella Ricerca. Fu un moto spontaneo, sorto senza avvisaglie, in un luogo del Cosmo momentaneamente immune dal Disordine, sotto una volta galattica tra due cateratte di plasma: l'energia del Cosmo prese la forma di tre moduli triangolati e traslucidi, che parevano fatti della stessa luce che assorbivano, o forse erano luce essi stessi. Si intersecarono tra loro e, come una lieve e tremolante navicella, si avventurarono nelle zone del Disordine, facendo scivolare su di sé i colpi artigliati delle supernovae più acide e infiammate, respingendo l'attrazione dei buchi neri, inoltrandosi nelle giungle di ellissi atomiche più intricate. Le scintille improvvise che sprizzavano dalle lotte tra neutrini e vuoto si sospendevano al passaggio del modulo tri-triangolare: la goccia di Cosmo e Forma che palpitava dentro il modulo pareva parlare a quei riccioli di materia, bloccandoli in una stasi assetata di collocazione.
Giunse alla fine ai bordi di una conca ancora immune dal Disordine, appena appena offesa ai margini dagli sfaldamenti materici, i cui frammenti sfioravano il modulo, sciogliendosi in gocce di rugiada mesonica.
Dentro la conca c'era un lago di luce, forse uno dei primi formatisi al momento della nascita del Cosmo, o forse uno di quelli che c'erano sempre stati e per puro caso non erano ancora stati prosciugati dalla sete di autoconoscenza del Cosmo stesso. La luce era di ogni colore, evaporava in se stessa, avvolgendosi in onde di vento liquido che rinascevano sotto altra forma per poi organizzarsi in parabole guizzanti, capaci di tenere lontane le folate oscure del Disordine.
Il modulo entrò nel lago, vi si immerse, assorbì il potere di quella luce ancora informe perché sede di ogni Forma. Dopo ne uscì, portando su di sé tutta la gamma dei colori che bruciavano sulla superficie traslucida, sì che il passaggio del modulo tra le macerie del Disordine riattivava i princìpi della Forma, Forma che sembrava tornare a quel Prima che l'autoricerca del Cosmo aveva obliato.
Il modulo raggiunse quindi una zona colma di buchi neri, la cui attrazione gravitazionale inghiottiva facilmente interi sciami di galassie, e si fermò. Roteò su se stesso. Si avvolse di pulviscolo e fasci protonici. Sparì.
Erano però spariti contemporaneamente anche i buchi neri. Al loro posto, un'enorme distesa di luce bianca che si incurvò su se stessa fino a prendere le sembianze di una specie di gomitolo rosso di filamenti impalpabili di pura energia. Poi un silente boato. Poi, una gemma.
Kallistèa.  

giovedì 30 maggio 2013

Con un leggero ritardo....

Riceviamo e pubblichiamo:
"Cercai verità e bellezza; trovai i rovi del disincanto. Appartenni, o  credetti di appartenere, ma gli Altri restarono sempre al di là di un vetro. Cercai, ma alla fine restai dov'ero partito". Francesco Della Torre.

Ci congratuliamo col nostro affezionato lettore, che in questi 5 mesi non ha potuto peraltro leggere NULLA su questo blog per la colpevole pigrizia del titolare, e che tuttavia ha voluto condividere con noi la sua scarna esperienza di vita, basata,a quanto pare, sul quella che sui pessimi testi di letteratura italiana di 30 anni fa si chiamava "inesausta ricerca di un mondo veramente umano". Il fatto è che l'Assoluto, e in questo mi conforta la visione del recente film di Sorrentino La grande bellezza, è per gli uomini un disperato attimo di luce, un'isola tremolante in mezzo ad un mare di tenebre, siano esse i limiti metafisici cui noi tutti siamo soggetti, o più semplicemente la mediocrità diffusa e i suoi valori di finto ugualitarismo che si traducono negli schemi estetico-comportamentali da cui discende per chi vi aderisce l'illusione di essere cool, al passo coi tempi, inserito nel circuito della Figaggine.
Il nostro Francesco, in realtà, ha cercato la bellezza (senza la maiuscola, e già per questo ci è assai simpatico) secondo i canoni di una volta, ovvero come espressione di un'armonia che placa le ansie negative e stimola i sentimenti tumultuosi ma veri che ci innamorano. Oggi la bellezza pubblicizzata dai media è parte integrante del sistema consumistico [ATTENZIONE: IL TENUTARIO DI QUESTO BLOG NON È DELLA SINISTRA ANTAGONISTA, MA CRITICA EQUANIMEMENTE E DI QUI E DI LÀ], non rappresenta un'idea di Bene incarnato o un modello da inseguire e, pur non raggiungendolo, desiderare con lo struggimento che addolcisce le cure del quotidiano. No: oggi la bellezza è un business, fa guadagnare i belli e porta i non belli per centri estetici e palestre; è fine a se stessa, nel senso che deve più che altro occupare i cervelli degli individui più impressionabili, facendo loro credere che il mondo nasce e finisce su na passerella o in un passaggio su MTV, alimentando così la stupidera di massa; al posto del dolce struggimento per la perfezione irraggiungibile troviamo gente che finisce in analisi perché non ha le gambe lunghe 1 metro e 27 cm o non riesce ad avere più di sei addominali sul ventre.
Questa bellezza massificata ed effimera, flashante e insidiosa, è uno dei nemici della Cultura, perché il vero Bello cerca sempre l'armonia tra interiorità ed esteriorità. La bellezza mediatica è puro spettro per farci dimenticare di essere dotati di anima. Pertanto diciamo NO a QUESTA bellezza e chiamiamo a raccolta gli amanti del sincretismo corpo-anima per trovare un Bello che sia bello davvero. Noi metteremo del nostro, raccontandovi, nelle prossime puntate, la leggenda di Kallistèa.

Ossequi.

Anzi no.

Abbracci.

No, troppo No Global.

Insomma, alla prossima. Ciao.


venerdì 4 gennaio 2013

Introduzione e regole

Non sarà questo il posto per le discussioni paludate, buone solo per quei 4-5 che se la raccontano tra loro; non sarà questo il luogo dello sfoggio puerile e civettuolo di erudizione fine a se stessa, buona solo per far allontanare la gente dalla cultura; non sarà questo il posto in cui sapienti narcisi scriveranno a se sessi cose meravigliose, lasciando nei lettori la convinzione che l'intellettuale è destinato a non servire ad altro che ad alimentare la sua stessa superbia. No. Noi vogliamo promuovere la Cultura vera, quella che obbliga le persone a mettersi in gioco e a riflettere sul senso più profondo del suo destino, al di là degli scogli piccoli o grandi del quotidiano: noi vogliamo dimostrare che la letteratura e l'arte non sono passatempi per pochi eletti, ma il risultato più alto del cammino umano, che tramite esse ha dato voce alla coscienza, cioè a ciò che accomuna tutti noi. Cos'altro è la coscienza se non il racconto che l'individuo fa di se a se stesso? E cos'è allora la Cultura, se non il racconto dell'intera umanità a sé medesima? Chi vorrà viaggiare con noi, scoprirà che la Cultura è per tutti quelli che ci credono. A chi, pregiudizialmente, dice che 'sono" solo chiacchiere", rispondiamo: "Dacci fiducia, o vattene". Benvenuti a bordo.