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Noi crediamo nella Cultura vera, ovvero la capacità dell'uomo di raccontarsi a se stesso. Nessuno escluso.

venerdì 21 giugno 2013

Philosophia medica [2]

L'avvento della cosiddetta Età ellenistica rappresenta uno degli snodi fondamentali della storia umana, molto spesso peraltro sottovalutati dai cosiddetti modernisti che non concepiscono altro spazio di accadimento delle cose fuori del perimetro che essi decidono di assegnar loro. Con le nostre medesime orecchie, nel lontano 2005, al Festivàl della filosofia di Carpi, udimmo un capoccione francese di evidenti ascendenze italiche, tal Michel Maffesolì, discettare dottamente sotto un sole cocente e davanti ad una folla plaudente del fatto che, a suo dire, mai prima d'ora, cioè prima del quindicennio 1990-2005, il mondo aveva conosciuto una così evidente compenetrazione di stili di vita occidentali e orientali, per dire cioè che, grazie alla globalizzazione, l'antica distanza, non solo geografica ma proprio culturale, tra i due emisferi verticali del mondo è andata riducendosi nel senso di una progressiva innervatura di modi di vita all'orientale nel tradizionale tessuto culturale dell'occidente. 
Al che, vuoi per il caldo, vuoi perché erano ancora tempi in cui si attendevano a settembre le chiamate dalle scuole, ho rischiato l'embolo, dal momento che anche il più scalcinato classicista sa che il primo vero caso di globalizzazione, intesa proprio come incontro tra oriente e occidente, è avvenuto un pochino prima rispetto alle dotte tesi maffesoliane, ovvero appunto nel periodo denominato Ellenismo (convenzionalmente delimitato tra il 323 a.C. - morte di Alessandro Magno - e il 31 a.C. - caduta dell'Egitto sotto Roma). Lì, grazie alla diffusione della cultura greca in zone non greche come la Siria, la Persia, l'Egitto, e poi su fino all'odierno Afghanistan, senza contare l'attuale Turchia, che però con gli ellenici aveva sempre avuto un po' a che fare, oriente e occidente si incontrarono, poiché il mondo greco assorbì suggestioni da tutte le civiltà orientali che erano state sottomesse da Alessandro e che avevano continuato a grecizzarsi anche dopo la sua morte, poiché è noto che allo sfaldamento del grande impero macedone seguì la formazione dei regni detti appunto ellenistici (Macedonia, Siria, Egitto, Pergamo), che nella loro versione orientale erano monarchie con classe dirigente greca e sudditi asiatici/egiziani. Spiace che l'ottimo Maffesolì non abbia MAI in tutto il suo intervento accennato nemmeno di striscio a questo fenomeno, perché lì davvero si giocò la prima grande partita di integrazione fra due zone del mondo che ancora oggi non si guardano proprio di buon occhio. Eppure la storia è andata così: divinità greche, siriache, egiziane furono venerate sotto nomi diversi ma in riferimento ad una medesima figura (Artemide = Iside = Astarte), stili di vita, credenze filosofiche e misteriche si mischiarono in un caleidoscopio affascinante e imprevedibile, così come non meno importante fu la cultura materiale delle suppellettili, dei vestiti, del modo di costruire le case, ma ancora l'influenza reciproca che le scuole artistiche al di qua e al di là del mar Egeo si scambiarono vicendevolmente. E insomma, il primo atto della globalizzazione fu quello. Piccolo,  risibile rispetto alle proporzioni di oggi, ma la radice di tutto è già a quell'epoca.
Epperò accadevano cose: i liberi cittadini greci erano diventati ormai sudditi dei monarchi macedoni; gli altri, cioè gli abitatori grecofoni dei regni orientali, si misuravano con gente che alla sudditanza era avvezza da 3-4000 anni, quindi nulla di che; tuttavia, il contatto con visioni del mondo così altre rispetto a quella ellenica, la relativizzazione dei valori, l'incertezza politica legata, sopratutto fino al 280 a.C., alle continue lotte tra i monarchi ellenistici per strappar territori ai rivali, sì che un abitante della Fenicia si addormentava suddito del re d'Egitto e si svegliava il giorno dopo suddito di quello di Siria, o anche viceversa, tutto questo clima di mobilità permanente psicologica e materiale provocò in molte coscienze una forte crisi, un accentuato senso di insicurezza, legato soprattutto, nel caso dei greci memori delle antiche libertà della polis, al non poter essere più arbitri del proprio destino, costretti invece a infiniti compromessi con linee di forza politiche, sociali, culturali che imponevano pressoché quotidianamente un ripensamento del proprio Sé. È chiaro allora che le antiche "promesse" delle filosofie greche classiche, il loro sguardo su un riscatto definitivo dell'anima da collocarsi entro la dimensione metafisica, non potevano saziare gente desiderosa di risposte immediate, concrete, legate ad un'etica sommamente pratica, quasi spicciola.   
Ciò spiega l'immenso successo che in quest'età riscossero due filosofie di impianto unicamente materialista, ovvero epicureismo e stoicismo. In disaccordo su tutto, entrambe riposano tuttavia su un impianto che nega l'esistenza di alcuna realtà che sia al di fuori del mondo sensibile: per gli epicurei tutto l'universo è costituito di atomi indistruttibili ed eterni che si aggregano e si disgregano in continuazione muovendosi nel vuoto; per gli stoici l'universo è attraversato da un soffio di energia calda, il pneuma, che si trasforma in tutte le cose e dà loro vita. Ciao metafisica, insomma. Conseguenza di ciò, ambo le filosofie si dividono agilmente in tre tronconi, la cui importanza è però inversa rispetto a quanto ci si sarebbe aspettati in epoche anteriori: c'è la fisica, ovvero la dottrina che spiega la natura e il funzionamento dell'universo materiale, la logica, ovvero lo studio delle condizioni attraverso cui l'uomo conosce il mondo che lo circonda, ma c'è soprattutto l'etica, ovvero l'insieme delle norme che devono garantire una vita felice QUAGGIÙ, anche perché di fatto lassù, inteso come al di là dell'esperienza sensibile, non vi è semplicemente nulla.
È a quest'altezza che cominciano a imporsi motivi metaforici riguardanti la possibilità che la filosofia sia una cura per l'anima; non solo e non tanto perché, parallelamente, la medicina "scientifica" sta compiendo notevoli progressi nella comprensione del funzionamento del corpo umano (si scopre la funzione dei nervi, tanto per dire, anche se diagnosi e terapie generali delle malattie restano sempre piuttosto debolucce), ma soprattutto perché, in un orizzonte materialistico come quello proposto dalle filosofie anzidette, l'anima stessa non è più spirituale, ma corporea anch'essa. L'anima viene cioè trattata come corpo, ma questo "come" non indica una comparazione tra due soggetti al loro fondo diversi, ma è un'apposizione, cioè anima IN QUANTO corpo, fatta di atomi per gli epicurei, di pneuma clado e leggerissimo secondo gli stoici. In tal modo, all'individuo afflitto da crisi esistenziali multiple si può offrire una soluzione un po' meno evanescente rispetto a prima, poiché la possibilità di intervenire sui mali dell'anima tramite terapie a questo punto affini a quelle mediche rende, per così dire, più "tangibile" e quindi "credibile" la prospettiva di guarire dalle ansie e dalle passioni che turbano al coscienza. Si tratta in sostanza non più di chiedere la disponibilità a scommettere su una dimensione "altra" rispetto a quella in cui si vive, ma di indicare un percorso di guarigione identico a quello di un male fisico, poiché l'anima stessa è fisicità.
Si capisce allora il senso del vertice etico delle due dottrine, molto simile nel significato tradotto, ma più specifico nel senso etimologico originale.
Per gli epicurei il fine dell'uomo è la felicità come assenza di turbamento, e l'assenza di turbamento in greco si dice ataraxìa. Si badi però che qui il turbamento è reale, non metaforico: nell'esortare alla soddisfazione dei desideri naturali e necessari (fame, sete, ecc.), Epicuro ragiona sulla base della convinzione che i desideri "cattivi", ovvero quelli non naturali e non necessari (denaro, fama, potere) hanno il potere di turbare l'anima, ma proprio nel senso materialissimo di agitare in eccesso gli atomi che la compongono, ciò da cui discendono le nostre afflizioni. La quiete del saggio, all'opposto, consiste appunto nell'avere l'anima materialmente serena, con gli atomi in movimento regolare e non confuso.
Discorso analogo noi si va a fare per l'apàtheia stoica: la traduzione italiana apatìa non rende evidentemente giustizia al concetto originale greco, poiché per noi il vocabolo indica qualcosa di vicino all'accidia, un'incapacità di agire per scarsa volontà, laddove per gli stoici questo concetto è altamente positivo. Perché ciò? Perché a-patheia significa evidentemente "mancanza di pathos", però pathos non indica, originariamente, una sofferenza, ma più radicalmente una condizione passiva, ovvero il fatto che un corpo subisca una sorta di pressione, o impronta, da parte di un altro corpo, venendone modificato (si pensi ad un sigillo sulla ceralacca). Ebbene, l'anima stoicamente intesa è un flusso di pneuma che scorre nel nostro corpo e che è presente ovunque, anche negli occhi, e ovviamente nel cuore e nel cervello. Gli eventi esterni, o meglio le raffigurazioni che di essi giungono al cervello e al cuore tramite i sensi, "si imprimono" sulla facoltà percettiva dell'anima e diventano "rappresentazioni" che noi introiettiamo (come accadeva alle vecchie pellicole fotografiche - ah, il digitale che barbarie...); si badi però anche qui: ciò che noi intrioettiamo non è un'idea astratta della cosa percepita, ma è precisamente il suo calco sulla fisicità della nostra anima percettiva. Questo è il primo stadio del pathos, che come si vede è assolutamente neutro, nel senso che in sé non comporta né gioia né dolore, perlomeno nulla in cui siamo parte responsabile. Il problema sorge allorché la nostra anima, dopo aver "ricevuto" l'impressione, la giudica, e se il suo grado di tonicità non è adeguato, il giudizio erra e allora si cade preda del pathos in senso più comune, ovvero la malattia dell'anima (ira, invidia, cupidigia, ecc.).
Esempio tipico: il mio amico X, per farmi uno scherzo e forse un dispetto, prende in mano un oggetto a me molto caro e lo butta a terra, rompendolo. Questa scena si imprime nella mia anima, deformandola leggermente; che io sia saggio o no, l'evento in sé rappresenta certo una negatività dovuta ad un atteggiamento non razionale di X, ergo io, o meglio la mia anima, viene percorsa da un breve "tremito" di spiacevolezza che è pathos nel suo aspetto più innocuo, paragonabile ai brividi sulla pelle che chiunque di noi prova automaticamente e senza volerlo se viene spruzzato con acqua fredda a tradimento. 
Passo successivo: la mia anima "denomina" la negatività appena ricevuta, ovvero la "riveste" con un contenuto proposizionale del tipo: "X, col suo gesto, mi ha offeso". Tutto si gioca ora sul grado di tonicità dell'anima che concepisce tale pensiero: se è l'anima di un saggio, la tonicità sarà sufficiente per respingere l'impressione negativa, così che la superficie dell'anima stessa ritorni "liscia", come se nulla vi si fosse impresso; il saggio giungerà a questa ri-liscizzazione dicendo a se stesso: "Nulla che riguardi i beni materiali può davvero offendere la mia virtù". Se però parliamo di una persona un po' meno saggia, l'immagine di X che rompe l'oggetto a me caro premerà ancor un po' di più sulla superficie dell'anima, la quale aggiungerà una nuova proposizione alla precedente: "Adesso è giusto che io mi vendichi". Se si è giunti a questo stadio, significa che la "deformazione" dell'anima è vicina al punto critico, a causa delle spinte esterne che si ripercuotono sull'immediata percettività, ovvero un momento pre-razionale e da lì alla nostra facoltà di giudizio. Chi non è saggissimo, ma comunque sulla buona strada, riuscirà in un intervento in extremis controbattendo al contenuto biproposizionale con un contenuto analogo ma opposto, del tipo: "Non può esserci vendetta, perché non c'è stata vera offesa". Se il contrattacco va in porto, l'anima si ridistende e la passione è scongiurata. Se però nemmeno questo ultimissimo stadio ha effetto, il giudizio espresso nella doppia proposizione "Mi hanno offeso- devo vendicarmi" riceverà l'assenso della nostra anima razionale che di conseguenza resterà deformata e sconvolta dall'irrazionalità e darà luogo alla reazione della vendetta, veicolo della passione dell'ira: io picchierò X. Ecco qui il verificarsi del pathos vero e proprio, ovvero una totale sottomissione della ragione al suo opposto.
Anche in questo caso, si nota, i termini della questione sono estremamente fisici: l'anima necessita di essere tenuta in esercizio come (= al pari di, in quanto) la corda di un buono strumento musicale, che non deve essere né troppo tesa né troppo rilassata. A tale condizione contribuiscono evidentemente gli studi filosofici, poiché i buoni discorsi - lògoi contenuti nelle opere dei saggi, una volta percepiti dall'anima (che per gli stoici è a sua volta lògos e insieme pneuma spirituale, ovvero pneuma materiale leggerissimo, ma pur sempre materia), vi si stampano realmente e quindi ne modellano la liscia e uniforme tonicità. Anche in questo caso, quindi, la filosofia cura l'anima esattamente come se si trattasse di applicare un unguento su di una ferita, solo che la ferita in questione è provocata dell'indebito stamparsi di un'impressione negativa che una mancanza di tonicità ha mal giudicato.
Stoici ed epicurei curano insomma l'anima sottoponendola a terapie analoghe a quelle dei corpi. Si può intuire allora che, ad in certo punto, medicina e filosofia finiranno per incontrarsi davvero. E fu subito Scuola Medica Pneumatica.

                                                                                                  (2- continua)    

martedì 18 giugno 2013

La leggenda di Kallistèa [2].

Kallistèa roteò e generò attorno a sé un sorriso di energia, l'energia della Forma. Il vuoto attorno a lei parve danzare, tutte le dimensioni si fusero in una sola, poi si ri-separarono, poi la luce si sbriciolò in tante scaglie che si dispersero negli spazi sterminati del Cosmo. Kallistèa però restò lì dov'era, e le adunche reti del Disordine non poterono nemmeno avvicinarlesi: attonite da tanta potenza e bellezza, irritate dall'Ordine che emanava dalle onde cosmiche della gemma, si ritirarono irose negli anfratti più remoti, ma non per questo cessarono di agire: cataclismi e rovesciamenti di plasma pulviscolare si scatenarono più di prima così da ridistruggere l'Ordine appena ricostituito. Il Cosmo soffriva, ma sentiva che la presenza di Kallistèa rappresentava un baluardo troppo a lungo cercato, ma ora finalmente presente. 
Anche il Disordine comprese la minaccia, è si adoperò per cancellare Kallistèa.
La gemma era però inscalfittibile, protetta da una sorta di potere rigenerante che faceva evaporare ogni assalto in una miriade di piangenti gluoni oscuri. 
Il Disordine decise allora di promanare ovunque, portando il cosmo all'implosione su sé medesimo: senza più uno scenario dove far poggiare i suoi pilastri, la Bellezza assoluta si sarebbe dissolta con esso. 
Si sarebbe cominciato dai pianeti. Su uno di essi, particolarmente verdeggiante, il Disordine prese a far piovere una strana escrescenza bluastra, che a contatto col terreno vi scavava voragini immani, piovendovi poi dentro fino a sgretolare le radici stesse delle cose. Dal baratro senza fine sorse quindi una serie di insopportabili esseri vegeto-animali, in grado di spostarsi sulle proprie radici e divorare con le proprie liane impregnate di acido qualsiasi cosa si trovasse sul loro cammino. 
In poche ora il pianeta fu quasi totalmente spogliato di ogni suo senso, poiché le vegeto-bestie non si saziavano mai, anzi si riproducevano grazie a bubboni fungosi che sbocciavano sulle liane e si staccavano per attecchire ovunque.
Fu a questo punto che una delle schegge di Kallistèa cadde sul suolo del pianeta. Era una scheggia di colore scuro, di un nero oltre le cui profondità pareva di scorgere le origini stesse della Forma. Appena toccò il suolo, la scheggia fece appassire tutte le vegeto-bestie intorno a lei. La altre, gocciando bava petroleosa dalle liane dotate di occhi, restarono in attesa, pronte tuttavia a scagliarsi su quel frammento di Bellezza assoluta per fagocitarlo rapidamente.
Non ebbero il tempo progettare ciò: il frammento, nero come l'onice, salì nell'atmosfera e poi si precipitò verso terra ad una velocità impressionante,  e mentre scendeva in picchiata andava assumendo una forma definita, come quella di una pantera. Giunta al suolo, la scheggia era di fato una gigantesca pantera, le cui zampe tuttavia lampeggiavano di guizzi bianchissimi, tali peraltro da impedire che l'animale toccasse il suolo, ma sostenendolo come a mezz'aria. Altro però era da stupirsi: dove la pantera passava, i guizzi lampeggianti delle zampe facevano rinascere la vita sul suolo divorato dalle vegeto-bestie: una flora rinnovata, verdissima e brillante, che con la sua armonia rinnegava e quasi derideva l'esistenza di quegli altri esseri figli del Disordine. Nuovi arbusti sbocciarono sotto le liane acide, immuni ai loro miasmi, chiome altissime portarono via con sé i mostri e li fecero precipitare al suolo, sì che essi si ridussero in poltiglia; i fili d'erba di avvolsero attorno alle vegeto-bestie, succhiando loro via ogni vigore.
Non bastò: l'esercito subnormale puntò compatto verso la Pantera, che guizzò ad una velocità indescrivibile e con gli artigli del lampo fece strage delle vegeto-bestie. Più volte le liane occhiute si avvinghiarono attorno al corpo e alle zampe della Pantera, ma ogni volta l'energia di Kallistèa sprizzava accecante e rendeva vana la presa. Con un ruggito, l'animale ipercosmico assalì le ultime immonde creature, che franarono su se stesse e ridivennero concime per le piante vere. Il pianeta fu così pacificato e riportato a nuova vita dal primo potere di Kallistèa, la Pantera del Lampo. 
Su un altro pianeta, frattanto, il Disordine aveva preso a martoriare i viventi con atroci tempeste acide e con maremoti di onde che si alzavano ad altezze estreme, per poi ricadere come magli spietati sulla crosta del pianeta, lasciando crepe e voragini su cui poi la marea acida scavava ferite non più medicabili. La vita si ritraeva smarrita di fronte a simile violenza, finché le nuvole si scostarono e una seconda scheggia di Kallistèa si aprì un varco in mezzo al Disordine: anch'essa era scura, ma sulla sua superficie brillavano strisce dorate. La sua discesa sul suolo del pianeta  provocò un improvviso arresto del flusso ondoso verso l'alto e anche le gocce acide di tempesta restarono sospese nel cielo. La luce dorata che si alternava ai balenii oscuri piovve sulle crepe della crosta e le richiuse, permettendo lo sgorgare di fontane di vapore che ripulivano l'aria. 
Il Disordine avvertì questa nuova minaccia al proprio potere e richiamò tutte le acque del pianeta nel luogo in cui si trovava la scheggia kallistaica, vicino ad una rupe a picco sull'oceano più vasto di quel globo. Una colonna di incommensurabile vastità ed estensione verso l'alto si ergeva contro la minuscola scheggia, avida di nuvole e ossigeno, sì che l'aria di quel punto del pianeta divenne di fatto irrespirabile. Le gocce di acido piovevano contro il potere di onice striato d'oro, ma evaporavano prima ancora di toccarlo. 
Un attimo, e la cima della torre d'acqua si rovesciò sulla scheggia, ma nemmeno la spostò. Purtroppo, però, il pianeta venne sommerso da un'ondata che cancellò quasi tutte le civiltà su esso fiorite. Il Disordine era tuttavia assetato di quella scheggia e la colonna d'acqua prese stavolta le sembianze di un gigantesco maglio, pronto a disintegrare Kallistèa.
La scheggia però si mosse più rapida contro il maglio d'acqua, e nel suo movimento prese le sembianze di un'aquila dalle ali d'oro, che con gli artigli agganciò la massa d'acqua e se la portò dietro, facendola contorcere su se stessa per poi lasciarla cadere sul fondo dell'abisso. 
Di fronte a quest'ingiuria, il Disordine rianimò l'oceano acido del pianeta perché, come una gigantesca mano, afferrasse e stritolasse l'Aquila. Così non fu: la mano d'acqua si spalancò possente, tale da coprire tutta l'estensione di un emisfero del pianeta, ma l'Aquila puntò contro di essa, spalancò le ali, e come una lama di energia d'oro la penetrò, facendola evaporare definitivamente, mentre le nubi fecero piovere un pioggia stavolta buona perché purificata dal potere di Kallistèa, l'Aquila della Onde, sotto il cui presidio la vita del pianeta poté riprendere.

                                                                                     (2- continua)

domenica 16 giugno 2013

Philosophia medica. Alle origini.

È noto ai più che oggi, se l'individuo soffre di una depressione riconducibile prevalentemente ad un disturbo umorale di pura natura psichica, lo si spedisce dallo psicologo che, a colpi di dialogo ed introspezione, lo aiuterà ad uscire dal tunnel. Se però la natura del male affonda le radici nella situazione fisiologica del paziente, vuoi per un calo di ormoni, vuoi per i postumi di una malattia, vuoi per l'eccessiva somatizzazione del disagio psichico, ecco allora che entra in gioco la saputa figura dello psichiatra, che oltre a chiacchierare può anche prescrivere farmaci che aiutino il cervello a fare ciò che di norma sarebbe in grado di fare da solo, oppure terapie a base di ansiolitici che cancellino le fobie dallo spettro neuronale dell'interessato.
Già, già. Oggi psicologo e psichiatra sono separati tra loro non solo e non tanto dalla laurea in medicina, ma anche dal fatto che l'approccio psicologico è decisamente agganciato al pensiero filosofico in materia di conoscenza dell'anima, laddove lo psichiatra deve soprattutto "parlare" alla componente materiale e alla sorgente concreta delle nostre alterazioni umorali.
Parrà strano, ma se la cura dell'anima pare ai nostri giorni inevitabilmente condivisa tra due figure simili ma non del tutto, facendo un salto indietro nella nostra adorata antichità classica scopriamo che il medico e il filosofo si sono quasi sempre tenuti su orizzonti diversi, eppure medicina e filosofia si sono avvicinate molto più di quanto si potrebbe immaginare in astratto.
Non è del resto tipica l'immagine della filosofia come cura dell'anima? Ebbene, questo assunto apre scenari molto variegati. Che noi di animaperta siamo qui pronti ad ammannirvi, rimandandovi ovviamente alla lettura del capitale saggio di cui ci onoriamo di essere i padrini.

Procediamo: l'accezione molto popolare di filosofia come cura dell'anima punta il baricentro della questione soprattutto sull'etica. Alla filosofia, di fatto, si chiede di fornire ricette del buon vivere, spesso imparentate con il buon senso più sapido e tradizionale, in modo da potersi creare dei piccoli sistemi di vita perfettamente autonomi, confliggenti il meno possibile con quelli degli altri, in grado poi di dotarci di uno "scudo" sufficientemente solido contro gli accidenti della vita, dai più banali ai più imprevisti e dolorosi. Il che, certo, è uno degli obiettivi della filosofia pressoché dalla sua nascita, giacché dimensione speculativa e dimensione etica si intersecano fatalmente nella riflessione dei filosofi, germogliando entrambe dall'intento di dare una lettura umana, cioè razionale, della realtà. È però un fatto che, in termini assoluti, la dimensione etica spesso risulta dipendente e in certo modo secondaria rispetto a quella metafisica. 
Cioè a dire: posto che, come l'ottimo Kant notò già ai tempi suoi, le etiche classiche sono tutte o quasi eudaimonistiche, prescriventi cioè le regole per raggiungere una vita felice, la differenza si gioca tutta tra l'approdo finale di questa felicità, che può essere nel solo mondo fisico o anche, e più preferibilmente, in quello metafisico delle essenze spirituali, immutabili ed eterne da cui dipendono tutte le cose che popolano la nostra terrena dimensione. Per Platone, evidentemente, non sono le ricchezze materiali il fine di una vita felice, perché l'anima umana, spirituale e affine alle Idee soprasensibili, ambisce a tornare là da dove era venuta cadendo nel corpo, nel luogo del Bene assoluto, dell'Uno metafisico che coincide con l'unica Verità; di ben altro parere i suoi spesso contemporanei filosofi sofisti, per i quali, eliminata la possibilità di conoscere ed esprimere alcunché si trovi al di fuori dell'orizzonte sensibile, il fine della vita si relativizza nella capacità di persuadere se stessi in primis e poi gli altri delle verità più convenienti per i singoli.
In tutto ciò, pertanto, la filosofia a volte è sì cura dell'anima, alle volte mero ammaestramento a cercare la dimensione esistenziale che meglio si attaglia al singolo. Il benessere dell'anima è però spesso una conseguenza indiretta del raggiungimento della verità, sì che l'etica non ha consistenza autonoma, ma discende in certo modo dalla metafisica e dalla dialettica, cioè a dire è anch'essa una forma di conoscenza (socraticamente: conosce il bene quindi lo prativo, quindi sono felice). Il filosofo dunque non si occupa del benessere dell'anima in termini di consigli spiccioli per il quieto vivere, ma la stimola al ricongiungimento con l'Assoluto in grado di guarire qualsiasi affezione. In sintesi: prima viene la conoscenza, poi, se serve, il ben vivere quaggiù, che però è una mera tappa intermedia, essendo la meta finale dell'anima il mondo soprasensibile. Di una cosa però paiono tutti sicuri: la cura dell'anima non può essere la medesima del corpo, perché anima e corpo sono due entità irriducibili, materiale uno, spirituale l'altra. Erano del resto gli anni in cui la medicina usciva dalla sua dimensione magico-sciamanica e si avviava a diventare una disciplina orientata secondo criteri di analisi razionale dei fenomeni patologici; che poi eziologia e terapia delle malattie, rispetto a noi oggi, fossero spesso sommamente ridicole, non toglie il fatto che il pensiero greco ha voluto una buona volta sganciare la figura del medico da quella dello stregone, per indagare le malattie nella loro assoluta corporeità. Arrivati però ai disturbi della personalità, Ippocrate e la sua squadra si arrestavano ad un'interpretazione molto teorica, e poco dimostrabile, nondimeno valida formalmente rispetto a quello che sappiamo noi oggi. In poche parole, se l'individuo cadeva in uno stato di depressione rabbiosa, ovvero la melancolia, ciò si doveva al fatto che nel corpo era presente un eccesso di bile nera, che dal fegato si era probabilmente riversata in quantità poco nobile nel sangue, infiammandosi  e provocando sintomi di fatto identici a quelli delle depressioni odierne, ovvero tristezza inestirpabile, misantropia, carenza di appetito, insonnia, fastidio per la luce e i suoni, ansia immotivata, pianti, corse e urla improvvise. L'ottimo medico di scuola ippocratica, tuttavia, poteva solo inferire una relazione tra disagio atrabiliare e disagio psichico che nei fatti non era dimostrabile: com'era possibile che la bile, ovvero fluido corporeo materiale, arrivasse ad influenzare l'anima, fatta di tutt'altra sostanza?
Arrestatisi a questo punto, i medici potevano al limite cedere ai filosofi l'indagine su stati di disagio psichico di pura natura spirituale, come ad esempio il mal d'amore: in casi simili, il medico dichiarava la propria impotenza a somministrare terapie, poiché l'eziologia del disturbo cadeva al di fuori del suo campo di indagine. Toccava dunque al filosofo curare l'anima. Ma secondo quali presupposti?
È chiaro che in un ambito filosofico fortemente agganciato alla metafisica, da Platone in giù, la cura dell'anima consisteva sopratutto nel far ricordare al "malato" il vero destino della medesima, la sua sorgente spirituale, il ruolo di pura incrostazione esercitato dalle "cose" del mondo da cui era necessario un rapido distacco per evitare di compromettere la capacità psichica di ricongiungimento con le altezze iperuraniche.     
È chiaro tuttavia che un simile tipo di "terapia" necessitasse un certo tipo di pubblico. Proporre la pace definitiva dei tormenti della psiche in una dimensione che si poteva solo immaginare per via speculativa, esigeva un popolo che alla dimensione speculativa, intesa come libera indagine razionale sui meccanismi del reale non vincolata da presupposti religiosi, era avvezzo già da un po' e infatti i greci del V-IV secolo a.C. si dimostrarono discepoli tutto sommato giudiziosi. Si parla evidentemente di un popolo che da decenni si metteva in aperta sfida coi limiti del reale, viaggiava, fondava colonie, affondava flotte persiane, metteva in scena tragedie nelle quali discutere del rapporto tra necessità universale e responsabilità individuale, imparava quanto fosse difficile vivere nella democrazia facendo in modo che i diritti della maggioranza non diventassero capestri per la minoranza, insomma gente adusa alle sfide che poteva accettare la scommessa metafisica e credere per via razionale a qualcosa che si collocava fuori del dominio dei sensi, ma con l'aggiunta che parte di questa dimensione extrasensoriale era tuttavia intimamente connessa col corpo, abitando in esso per l'appunto l'anima, che del corpo era la parte più nobile pur non omogenea. Venne tuttavia presto l'epoca in cui la filosofia dovette ingegnarsi per curare l'anima esattamente come un corpo, anzi in quanto corpo materiale essa stessa. E fu subito Ellenismo.

                                                                                                (1- continua)

sabato 15 giugno 2013

La leggenda di Kallistèa [1].

La Bellezza fu il primo vagito del Cosmo.
Il Cosmo si accorse di esserci, e di essere bello.
Sentì le proprie smisurate eppure geometriche proporzioni, solleticò se stesso con le scie delle comete che trapassavano da galassia a galassia, giocò con le fontane di luce che eruttavano dal cuore dei pianeti ancora in formazione. Dentro ogni forma si celava un'altra forma, in parte identica in parte diversa, ma affine alle forme che la contenevano. I pilastri gassosi reggevano volte di spirali e lungo le linee invisibili della gravità ogni atomo occupava la sua sede. Tutto brillava ameno dentro un buio perennemente increspato dai colori più vari e cangianti.
Il Cosmo, autopercepitosi come tale, volle tuttavia passare alla seconda fase dell'esistenza, ovvero la propria definizione, intesa davvero come ricerca dei propri confini, così da de-finire sé rispetto al resto. Fu in quel momento che il Cosmo scoprì di non avere confini, o perlomeno di non riuscire a percepire qualcos'altro che non fosse Cosmo; non c'era proprio nulla rispetto a cui definirsi, nel senso che il Cosmo si definiva per la sua stessa esistenza. 
Fu un brivido, che squassò lievemente alcune delle stelle più giovani. Non c'era un vero e proprio centro nel Cosmo, poiché esso era ovunque. Il limite non c'era, perché ogni regione più remota, di quelle in cui ancora minime scintille di carbonio principiavano ad accendere i propri tossicchianti bagliori, sapeva di essere prossima ad un'altra zona di Cosmo che prendeva forma in quel momento, senza essere a sua volta delimitata da altro che non fosse ancora Cosmo in formazione. 
Fallita quindi l'impresa di de-finirsi, il Cosmo procedette all'altra, forse inevitabile, operazione: scoprire le proprie origini. Giacché, se non sembravano esserci limiti nello spazio, almeno poteva darsi un tempo a partire dal quale il Cosmo aveva cominciato ad esistere. E ciò comportava di necessità lo scoprire cosa c'era stato prima.  
Silenzio. Il Cosmo, somma Bellezza del Tutto, non sapeva di sé altro che non fosse il fatto di essere Cosmo. Cosa ci fosse prima, non gli era dato sapere. La Bellezza era lì, già data. Meglio: si interrogò, lanciò onde di pulviscolo in quelle che gli parevano essere le zone più antiche (ma antiche rispetto a cosa?), in attesa che esse onde tornassero cariche di qualcosa, forse la traccia di un modello pregresso, la memoria di una cesura, la grinza tra due epoche, non più percepita perché assorbita dalla geometria della Bellezza. Ma nulla. Il Cosmo si conosceva nel presente, ma non aveva passato né limiti tangibili. E del resto, cosa avrebbe potuto esserci prima? La Bellezza del Cosmo era il risultato di qualcosa che era spuntato dal nulla o il nucleo della Forma Assoluta era da sempre e per sempre e andava semplicemente svolgendosi come una matassa di linee energetiche multicolori? Ma prima del Tutto, poteva davvero esserci il Nulla? E perché dal Nulla si sarebbe passati al Tutto? Se Nulla è, il Nulla è già Tutto? No, perché la Bellezza del Nulla non avrebbe senso.
Il Cosmo non capiva. Credette allora che tracce del passato potessero bensì essere celate nel presente, ma che esse andassero in certo modo stanate: e l'unico modo era rompere per un attimo le giunture della Bellezza per capire da cosa essa fosse composta, e se quel qualcosa che stava sotto la superficie potesse essere il primo passo di un sentiero che riconducesse all'indietro, verso l'Origine.
Iniziò così, per puro paradosso dell'Esistenza, la concorrenza all'interno del Cosmo tra Ordine e Disordine.
Si provò spostando alcune nebulose per cercare la trama che le reggesse; quindi alcuni pianeti furono posti su orbite diverse, in modo che il loro nuovo moto potesse svelare un'idea nuova. Le stelle precipitarono all'insù, ma non trovarono dove agganciarsi. I pezzi del Cosmo, ad un certo punto, iniziarono autonomamente a svolgersi e riunirsi senza un principio che governasse questi nuovi movimenti. Tuttavia, poiché il dis-ordine è tale solo in rapporto ad un ordine perduto, dissonanza e proporzione continuarono a misurarsi, giacché il disordine da solo sarebbe stato il nuovo Ordine, ma la non-forma esigeva la concorrenza della Forma e così il Cosmo continuava a perpetuarsi in un gorgo di molecole litigiose e prive di collocazione. I crolli seguivano alle ricostruzioni, le risalite culminavano in baratri di vuoto lucente al fondo del quale c'era solo Cosmo ferito. Né fu possibile invertire il processo per tornare alla disposizione cosmica anteriore all'inizio del processo disordinante: la confusione delle Forme, se pure non portava verso nulla in avanti, non consentiva altrettanto di riguardare indietro per riacquistare l'assetto iniziale. Il Cosmo si dimenticò di se stesso.
Fu a quel punto che la pressione del Disordine si fece insopportabile, poiché essa si estendeva ormai dai più remoti recessi del Cosmo fino alla superficie dei singoli pianeti, i cui ecosistemi si sgretolavano dentro i nuclei e dissolvevano le placche, riducendo i pianeti stessi a pulviscolo.
In quel momento, in un luogo imprecisato del Cosmo, la sete di Ordine tracimò nella Ricerca. Fu un moto spontaneo, sorto senza avvisaglie, in un luogo del Cosmo momentaneamente immune dal Disordine, sotto una volta galattica tra due cateratte di plasma: l'energia del Cosmo prese la forma di tre moduli triangolati e traslucidi, che parevano fatti della stessa luce che assorbivano, o forse erano luce essi stessi. Si intersecarono tra loro e, come una lieve e tremolante navicella, si avventurarono nelle zone del Disordine, facendo scivolare su di sé i colpi artigliati delle supernovae più acide e infiammate, respingendo l'attrazione dei buchi neri, inoltrandosi nelle giungle di ellissi atomiche più intricate. Le scintille improvvise che sprizzavano dalle lotte tra neutrini e vuoto si sospendevano al passaggio del modulo tri-triangolare: la goccia di Cosmo e Forma che palpitava dentro il modulo pareva parlare a quei riccioli di materia, bloccandoli in una stasi assetata di collocazione.
Giunse alla fine ai bordi di una conca ancora immune dal Disordine, appena appena offesa ai margini dagli sfaldamenti materici, i cui frammenti sfioravano il modulo, sciogliendosi in gocce di rugiada mesonica.
Dentro la conca c'era un lago di luce, forse uno dei primi formatisi al momento della nascita del Cosmo, o forse uno di quelli che c'erano sempre stati e per puro caso non erano ancora stati prosciugati dalla sete di autoconoscenza del Cosmo stesso. La luce era di ogni colore, evaporava in se stessa, avvolgendosi in onde di vento liquido che rinascevano sotto altra forma per poi organizzarsi in parabole guizzanti, capaci di tenere lontane le folate oscure del Disordine.
Il modulo entrò nel lago, vi si immerse, assorbì il potere di quella luce ancora informe perché sede di ogni Forma. Dopo ne uscì, portando su di sé tutta la gamma dei colori che bruciavano sulla superficie traslucida, sì che il passaggio del modulo tra le macerie del Disordine riattivava i princìpi della Forma, Forma che sembrava tornare a quel Prima che l'autoricerca del Cosmo aveva obliato.
Il modulo raggiunse quindi una zona colma di buchi neri, la cui attrazione gravitazionale inghiottiva facilmente interi sciami di galassie, e si fermò. Roteò su se stesso. Si avvolse di pulviscolo e fasci protonici. Sparì.
Erano però spariti contemporaneamente anche i buchi neri. Al loro posto, un'enorme distesa di luce bianca che si incurvò su se stessa fino a prendere le sembianze di una specie di gomitolo rosso di filamenti impalpabili di pura energia. Poi un silente boato. Poi, una gemma.
Kallistèa.