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sabato 15 giugno 2013

La leggenda di Kallistèa [1].

La Bellezza fu il primo vagito del Cosmo.
Il Cosmo si accorse di esserci, e di essere bello.
Sentì le proprie smisurate eppure geometriche proporzioni, solleticò se stesso con le scie delle comete che trapassavano da galassia a galassia, giocò con le fontane di luce che eruttavano dal cuore dei pianeti ancora in formazione. Dentro ogni forma si celava un'altra forma, in parte identica in parte diversa, ma affine alle forme che la contenevano. I pilastri gassosi reggevano volte di spirali e lungo le linee invisibili della gravità ogni atomo occupava la sua sede. Tutto brillava ameno dentro un buio perennemente increspato dai colori più vari e cangianti.
Il Cosmo, autopercepitosi come tale, volle tuttavia passare alla seconda fase dell'esistenza, ovvero la propria definizione, intesa davvero come ricerca dei propri confini, così da de-finire sé rispetto al resto. Fu in quel momento che il Cosmo scoprì di non avere confini, o perlomeno di non riuscire a percepire qualcos'altro che non fosse Cosmo; non c'era proprio nulla rispetto a cui definirsi, nel senso che il Cosmo si definiva per la sua stessa esistenza. 
Fu un brivido, che squassò lievemente alcune delle stelle più giovani. Non c'era un vero e proprio centro nel Cosmo, poiché esso era ovunque. Il limite non c'era, perché ogni regione più remota, di quelle in cui ancora minime scintille di carbonio principiavano ad accendere i propri tossicchianti bagliori, sapeva di essere prossima ad un'altra zona di Cosmo che prendeva forma in quel momento, senza essere a sua volta delimitata da altro che non fosse ancora Cosmo in formazione. 
Fallita quindi l'impresa di de-finirsi, il Cosmo procedette all'altra, forse inevitabile, operazione: scoprire le proprie origini. Giacché, se non sembravano esserci limiti nello spazio, almeno poteva darsi un tempo a partire dal quale il Cosmo aveva cominciato ad esistere. E ciò comportava di necessità lo scoprire cosa c'era stato prima.  
Silenzio. Il Cosmo, somma Bellezza del Tutto, non sapeva di sé altro che non fosse il fatto di essere Cosmo. Cosa ci fosse prima, non gli era dato sapere. La Bellezza era lì, già data. Meglio: si interrogò, lanciò onde di pulviscolo in quelle che gli parevano essere le zone più antiche (ma antiche rispetto a cosa?), in attesa che esse onde tornassero cariche di qualcosa, forse la traccia di un modello pregresso, la memoria di una cesura, la grinza tra due epoche, non più percepita perché assorbita dalla geometria della Bellezza. Ma nulla. Il Cosmo si conosceva nel presente, ma non aveva passato né limiti tangibili. E del resto, cosa avrebbe potuto esserci prima? La Bellezza del Cosmo era il risultato di qualcosa che era spuntato dal nulla o il nucleo della Forma Assoluta era da sempre e per sempre e andava semplicemente svolgendosi come una matassa di linee energetiche multicolori? Ma prima del Tutto, poteva davvero esserci il Nulla? E perché dal Nulla si sarebbe passati al Tutto? Se Nulla è, il Nulla è già Tutto? No, perché la Bellezza del Nulla non avrebbe senso.
Il Cosmo non capiva. Credette allora che tracce del passato potessero bensì essere celate nel presente, ma che esse andassero in certo modo stanate: e l'unico modo era rompere per un attimo le giunture della Bellezza per capire da cosa essa fosse composta, e se quel qualcosa che stava sotto la superficie potesse essere il primo passo di un sentiero che riconducesse all'indietro, verso l'Origine.
Iniziò così, per puro paradosso dell'Esistenza, la concorrenza all'interno del Cosmo tra Ordine e Disordine.
Si provò spostando alcune nebulose per cercare la trama che le reggesse; quindi alcuni pianeti furono posti su orbite diverse, in modo che il loro nuovo moto potesse svelare un'idea nuova. Le stelle precipitarono all'insù, ma non trovarono dove agganciarsi. I pezzi del Cosmo, ad un certo punto, iniziarono autonomamente a svolgersi e riunirsi senza un principio che governasse questi nuovi movimenti. Tuttavia, poiché il dis-ordine è tale solo in rapporto ad un ordine perduto, dissonanza e proporzione continuarono a misurarsi, giacché il disordine da solo sarebbe stato il nuovo Ordine, ma la non-forma esigeva la concorrenza della Forma e così il Cosmo continuava a perpetuarsi in un gorgo di molecole litigiose e prive di collocazione. I crolli seguivano alle ricostruzioni, le risalite culminavano in baratri di vuoto lucente al fondo del quale c'era solo Cosmo ferito. Né fu possibile invertire il processo per tornare alla disposizione cosmica anteriore all'inizio del processo disordinante: la confusione delle Forme, se pure non portava verso nulla in avanti, non consentiva altrettanto di riguardare indietro per riacquistare l'assetto iniziale. Il Cosmo si dimenticò di se stesso.
Fu a quel punto che la pressione del Disordine si fece insopportabile, poiché essa si estendeva ormai dai più remoti recessi del Cosmo fino alla superficie dei singoli pianeti, i cui ecosistemi si sgretolavano dentro i nuclei e dissolvevano le placche, riducendo i pianeti stessi a pulviscolo.
In quel momento, in un luogo imprecisato del Cosmo, la sete di Ordine tracimò nella Ricerca. Fu un moto spontaneo, sorto senza avvisaglie, in un luogo del Cosmo momentaneamente immune dal Disordine, sotto una volta galattica tra due cateratte di plasma: l'energia del Cosmo prese la forma di tre moduli triangolati e traslucidi, che parevano fatti della stessa luce che assorbivano, o forse erano luce essi stessi. Si intersecarono tra loro e, come una lieve e tremolante navicella, si avventurarono nelle zone del Disordine, facendo scivolare su di sé i colpi artigliati delle supernovae più acide e infiammate, respingendo l'attrazione dei buchi neri, inoltrandosi nelle giungle di ellissi atomiche più intricate. Le scintille improvvise che sprizzavano dalle lotte tra neutrini e vuoto si sospendevano al passaggio del modulo tri-triangolare: la goccia di Cosmo e Forma che palpitava dentro il modulo pareva parlare a quei riccioli di materia, bloccandoli in una stasi assetata di collocazione.
Giunse alla fine ai bordi di una conca ancora immune dal Disordine, appena appena offesa ai margini dagli sfaldamenti materici, i cui frammenti sfioravano il modulo, sciogliendosi in gocce di rugiada mesonica.
Dentro la conca c'era un lago di luce, forse uno dei primi formatisi al momento della nascita del Cosmo, o forse uno di quelli che c'erano sempre stati e per puro caso non erano ancora stati prosciugati dalla sete di autoconoscenza del Cosmo stesso. La luce era di ogni colore, evaporava in se stessa, avvolgendosi in onde di vento liquido che rinascevano sotto altra forma per poi organizzarsi in parabole guizzanti, capaci di tenere lontane le folate oscure del Disordine.
Il modulo entrò nel lago, vi si immerse, assorbì il potere di quella luce ancora informe perché sede di ogni Forma. Dopo ne uscì, portando su di sé tutta la gamma dei colori che bruciavano sulla superficie traslucida, sì che il passaggio del modulo tra le macerie del Disordine riattivava i princìpi della Forma, Forma che sembrava tornare a quel Prima che l'autoricerca del Cosmo aveva obliato.
Il modulo raggiunse quindi una zona colma di buchi neri, la cui attrazione gravitazionale inghiottiva facilmente interi sciami di galassie, e si fermò. Roteò su se stesso. Si avvolse di pulviscolo e fasci protonici. Sparì.
Erano però spariti contemporaneamente anche i buchi neri. Al loro posto, un'enorme distesa di luce bianca che si incurvò su se stessa fino a prendere le sembianze di una specie di gomitolo rosso di filamenti impalpabili di pura energia. Poi un silente boato. Poi, una gemma.
Kallistèa.  

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